È il 27 aprile 1966 e la Freeborn Hall dell’Università di Davis in California diventa un vero e proprio teatro: al centro della scena un gruppo di mimi simula nevroticamente dei gesti, una piccola orchestra suona una composizione che ricorda quella corrente di musica alea (tanto cara a John Cage), sulle pareti della stanza scorrono proiezioni di immagini cult, a tratti pop, da Napoleone alle pin-up. Poi il coup de théâtre: vicini al finale tutto il pubblico si vede proiettato sulle quattro mura e tutto d’un tratto diventa contenuto e contenitore.
È così che va in scena la prima assoluta di Die Schachtel (La Scatola), l’azione mimoscenica composta a quattro mani dal genio di Franco Evangelisti e Franco Nonnis.
Mentre il nome di Evangelisti è ancora oggi molto conosciuto soprattutto negli ambienti di arte e musica contemporanea in Italia (il 21 gennaio del 2016 il Conservatorio Santa Cecilia di Roma ha deciso di dedicargli un’aula in occasione dei 90 anni dalla nascita), il nome di Nonnis è andato via via sbiadendosi nel corso degli anni ed è rimasto vivo solo per una piccola cerchia di studiosi.

LA SVOLTA
Il momento di svolta è arrivato nel 2016 quando la famiglia Nonnis ha deciso di depositare e poi donare definitivamente nel 2020 l’intero fondo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. La donazione ha fatto sì che il team di studiosi che si era approcciato alla figura di Nonnis vedesse concretizzate le proprie ricerche non solo per quanto riguarda l’archiviazione e la catalogazione del fondo ma soprattutto per la realizzazione della personale «Sobre sí mismo» Franco Nonnis 1959-1965 che dal 10 febbraio fino al 20 marzo 2022 riempie due sale della storica GNAM (ora Galleria Nazionale).
Nato a Roma il 10 agosto del 1925, Franco Nonnis dimostra sin da ragazzo un’attitudine poliedrica e lievemente indolente, di quelle personalità che oggi verrebbero definite multipotenziali; non a caso si iscrive prima all’università nella facoltà di Scienze Naturali, con indirizzo in matematica e fisica, ma abbandona quasi subito per dedicarsi alle sue passioni. Così a 30 anni lascia la casa materna per trasferirsi in piazza Trinità del Pellegrino, in una casa-studio con Franco Evangelisti. I due sono inseparabili nella vita e nell’arte, infatti la prima opera ufficiale di Nonnis, Incontri di fasce sonore (1959), vede la firma dei due Franco – soprannome dato al duo dalla cerchia degli amici più stretti, come racconta Irmela Heimbächer, ex moglie di Franco Evangelisti. L’opera è il risultato di una ricerca verso la suddivisione dello spazio sonoro e delle durate in base a rapporti psicofisici ed in funzione dei parametri degli stessi diversi da quelli tradizionali, ovverosia un tentativo di costruire un sistema musicale capace di confrontarsi sotto il profilo percettivo con quello tradizionale, come aveva anticipato Stockhausen in Studio II. La sperimentale composizione elettroacustica è sicuramente da attribuire al compositore mentre Nonnis si occupa dell’aspetto grafico che riguarda lo schema di frequenze.

UN’INSOLITA CULLA
La casa dei «Franchi» diventa da subito un vero e proprio «salotto» per tutti gli artisti che gravitano nel loro stesso ambiente, un luogo dove parlare di arte, musica e politica, ma soprattutto un luogo dove poter collaborare artisticamente e dare forma concreta alle tante idee, creando progetti straordinariamente avanguardisti. È proprio in questa «culla» che nasce, dalla collaborazione con Egisto Macchi, il progetto embrionale di Nuova Consonanza, storico collettivo di musicisti e compositori di musica contemporanea, che vedrà la sua nascita effettiva nel 1964.

Il depliant del XVI Festival Nuova Consonanza, Auditorium Rai- Foro Italico, Roma, 1979

La produzione pittorica di Nonnis che va dal 1959 al 1965 può essere suddivisa in due periodi: nel primo, che si può ricondurre alla corrente informale, l’artista predilige tele di grandi dimensioni, con l’utilizzo di colori vivaci come il giallo e il blu che rimandano alle opere di Vasilij Kandinskij. Grazie a una pennellata rapida e ricca, l’artista vuole unire una rappresentazione intima della propria interiorità a un segno materico irruento. Ma anche l’influenza di Jackson Pollock è evidente: corpose e ricche pennellate vengono quasi gettate sulla tela in maniera istintiva, un rimando – o forse proprio una citazione – alla tecnica del dripping. Il secondo periodo invece lo possiamo far risalire ai primi anni ’60, con composizioni caratterizzate dalla presenza di colori acidi che arriveranno fino al 1965. Nonnis faceva spesso riferimento al termine «acidità», per indicare opere in cui non si faceva altro che mischiare materiali di diversa natura fra di loro come la cartapesta, l’olio, il grasso e il vinavil, facendoli interagire in un’unica composizione. È notevole il segno vivo della cartapesta, del muro che viene graffiato, cosicché le componenti del quadro appaiono come stratificate e gli elementi sovrapposti uno sull’altro.
A differenza del primo periodo, in cui il colore domina le composizioni, nelle opere degli anni ’60 è completamente assente. Le opere esprimono la profonda crisi che l’artista stava vivendo personalmente, l’istintiva vitalità delle prime, colme di colori e segni, lascia spazio a un utilizzo del non colore, dunque, a una maggiore contemplazione del vuoto. La tecnica pittorica muta e Nonnis inserisce l’uso di una particolare materia pittorica composta da un impasto di terre e inserti di cartone ondulato. In questa fase artistica è forte la vicinanza ai combine painting (1954) di Robert Rauschenberg: opere in cui lo spazio pittorico viene manipolato fino a trasformarlo quasi in un rilievo tridimensionale grazie all’inserimento di elementi extra pittorici provenienti dai mass media. Sia in Nonnis che in Rauschenberg l’utilizzo di questi «oggetti» sta a significare l’inclusione della vita quotidiana all’interno dell’arte.

La copertina di «Musiche da Camera» (Ennio Morricone, 1985)

 

COME UN COLLAGE
Tuttavia, mentre la produzione pittorica trova le sue radici nell’ispirazione a dei grandi predecessori, nei lavori di grafica Nonnis crea un segno unico e distintivo; uno dei lavori più noti è sicuramente la copertina per Musiche da camera di Ennio Morricone. L’artista che nella sua carriera si era contraddistinto per le sue note musiche da film aveva parallelamente affiancato una fervida produzione di musica contemporanea; per l’album uscito nel 1985 Nonnis crea una grafica astratta che ricorda forse un collage e che riprende il lavoro di grafiche svolto per Nuova Consonanza.
«Franco Nonnis appartiene a Nuova Consonanza anche se ha preferito non divenire socio fondatore, non essendo musicista. A Franco fu affidato il compito di eseguire e curare tutta la parte grafica: i manifesti, le locandine di festival e concerti. Il nostro materiale grafico è tutto di Nonnis che non prendeva una lira curando anche la stampa presso le tipografie», così afferma Egisto Macchi lasciando presagire che la collaborazione con Nuova Consonanza da parte di Nonnis fosse quasi un patto di appartenenza.
Le grafiche, realizzate per l’associazione, geometriche e colorate che strizzano l’occhio a Piet Mondrian non vogliono essere una rappresentazione sintetica della natura bensì una visione matematizzata della musica dove le linee che si incrociano rimandano a un pentagramma scomposto, mentre i fasci di colore sembrano essere una proiezione dei fasci di suono (che rimandano alla prima opera con Evangelisti).
Alcuni schizzi dell’artista presenti nell’Archivio GNAM sono essenziali per comprendere il rapporto di Nonnis con la musica. Si tratta di disegni eseguiti frettolosamente su pagine strappate da un quaderno: in uno il soggetto sembra essere un contrabbassista intento a suonare. Forse si tratta proprio di Stefano Scodanibbio, musicista rivoluzionario e protagonista di numerosi appuntamenti di Nuova Consonanza, poiché lo strumento rappresentato sembra un contrabbasso, e la posizione del braccio della figura umana priva di volto rimanda al modo di suonare di Scodanibbio; che all’epoca era unico ed oggi è una vera e propria scuola.
La forma dello strumento rappresentato, inoltre, ricorda una pera, ovverosia il modello scelto dal musicista per il proprio contrabbasso di liuteria Baldantoni. Nonnis scompone lo strumento evidenziando dettagli minori, spostando la tastiera fuori dalla cassa armonica; la mano del musicista pizzica le corde tirandole in orizzontale e formando così cinque righe, un pentagramma. In un altro invece vengono rappresentati righi di spartiti, anch’essi scomposti: il pentagramma sembra scorrere come un flusso continuo, sul quale si posano disordinate le note. La scomposizione degli elementi, come le note e gli spartiti per le grafiche di Nuova Consonanza, è dimostrativa dell’approccio avanguardista di Nonnis, che non rappresenta nulla per come lo vede, ma dona ad ogni elemento riportato nella propria arte una nuova vita e una nuova identità.

Gruppo Improvvisazione Nuova Consonanza, da sinistra Antonello Neri, Giovanni Piazza, Franco Evangelisti, Ennio Morricone, Egisto Macchi e Giancarlo Schiaffini

 

TUTTA LA VITA
L’attività per il panorama di musica contemporanea lo accompagna tutta la vita; tuttavia, da vero spirito bohémien Nonnis non riesce a fare della sua arte un vero e proprio lavoro, così comincia il suo percorso da scenografo al fianco di Antonio Calenda che lo porterà successivamente ad insegnare alla cattedra di Scenotecnica e Scenografia dell’Accademia delle Belle Arti di Firenze. Le operazioni scenografiche di Nonnis mettono in risalto la sua natura poliedrica e, grazie al connubio dato dalla regia di Calenda per l’allora neonato Teatro Centouno, diventano un punto fermo per la critica teatrale dell’epoca, tanto che spesso la sezione teatro di molte testate si apre con i nomi di Nonnis e Calenda a caratteri cubitali.
Nelle scenografie Nonnis sperimenta e azzarda ancor più che nella pittura, producendo con una visione quasi olistica dell’arte: la geometria, la tecnologia, le reference pittoriche e la passione per la moda (ereditata dalla nonna sarta) diventano gli ingredienti principali per le sue rivoluzionarie scenografie. Tra i lavori più iconici sicuramente la scenografia realizzata per Nella giungla della città, opera di Bertolt Brecht: messo in scena il 20 febbraio del 1968 al Teatro Valle, che all’epoca era il teatro Stabile di Roma, lo spettacolo vede Gigi Proietti nei panni di uno dei protagonisti, George Garga. Il dramma brechtiano, ambientato nella Chicago del 1912, racconta la lotta tra due personaggi, entrambi stranieri in terra americana, e viene rappresentato da Franco Nonnis in una scenografia esistenziale che si muove tra «stilizzazione e archeologia» – come scriverà l’Unità.
La scena progettata dall’artista è composta da uno scheletro di tubolari verniciati di arancione; al centro, sopraelevata, una pedana quadrangolare che rimanda subito all’immagine di un ring da boxe. Nonnis gioca con l’inserimento di parole all’interno della fiammeggiante scenografia; la parola FIGHT posta su una sorta di cartellone e accanto a questa il disegno di un guantone, chiari riferimenti pop, sicuramente ricorrenti nell’immaginario dell’artista. Per quanto riguarda i costumi invece Nonnis compie una scelta datata ma che non rimanda all’anno dello svolgimento della vicenda bensì a quello della scrittura dell’opera ossia «i ruggenti anni Venti. Gli abiti realizzati alla perfezione, oltre a rispecchiare una moda iconica, accentuano all’interno della messa in scena quel manierismo tipico del teatro brechtiano.
Per Nonnis la ricerca spaziale e formale già sperimentata sui quadri vede la sua realizzazione proprio nelle scenografie, la più avanguardista sicuramente quella realizzata per il Coriolano eseguito il 5 agosto del 1969 a Ostia Antica: una pedana lignea di forma pentagonale sezionata da buche che inghiottono e restituiscono i personaggi. Tuttavia, l’opera che rappresenta l’emblema dell’eclettismo di Nonnis è sicuramente Die Schachtel, un’opera di nuovo teatro musicale, sperimentale, a tratti avveniristica. Franco Evangelisti si occupa sicuramente dell’aspetto compositivo e musicale, mentre il ruolo di Nonnis è ancora oggi poco definito: di certo il forte legame affettivo e lavorativo tra i due artisti fa presagire che l’opera sia stata pensata, elaborata, scritta e realizzata come un «lavoro di squadra».
La divisione del lavoro risulta invece ben chiara dal punto di vista degli interpreti: la musica, infatti, spetta a una piccola orchestra con i musicisti che pur dovendo utilizzare tecniche estese e una notazione non tradizionale, non devono svolgere azioni che esulino da quelle convenzionali per i loro strumenti. Al nastro magnetico è, invece, affidata la parte musicale più espressamente referenziale con parole e suoni registrati riconoscibili. Ai danzatori-mimi è affidato il ruolo di partecipare all’azione con il proprio corpo: non solo con il movimento, ma anche, occasionalmente, emettendo suoni. Tutte le arti presenti in questo incredibile lavoro si relazionano l’un l’altra in un elastico rapporto di contrappunto – definizione del professore Alessandro Mastropietro, autore del libro Nuovo Teatro Musicale fra Roma e Palermo, 1961-1973 – che rimanda alla ricerca artistica di John Cage (uno fra i tanti esempi potrebbe essere proprio Theatre Pièce n°1), ma al contempo se ne distacca perché l’obbiettivo ultimo del lavoro sinergico dei «Franchi» è proprio una lucida critica alla società loro contemporanea – quindi quella del post boom economico.
Gli autori mettono in scena una vera e propria nevrosi che da una condizione di stasi iniziale va via via esasperandosi fino a un finale per l’epoca decisamente avanguardista. «La pubblicità rincorre l’uomo e ne prende possesso fino a renderlo vittima: alla fine la scatola si rompe, si disintegra. Noi siamo la scatola». Questa l’incisiva sintesi di Heimbächer che al fianco del marito aveva seguito lo sviluppo dell’opera.
La tecnologia – teorizza Mastropietro – subisce una torsione utopica, dalla scenografia con proiezioni integrate alla sperimentazione elettronica di Evangelisti, dove l’orchestra e la registrazione su nastro magnetico proseguono un fitto dialogo per tutta la durata dello spettacolo per giungere a un finale che a rivederlo oggi potrebbe ricordare senza dubbio una puntata della serie tv Black Mirror. Le immagini del pubblico venivano riprese in diretta e, sempre in diretta, proiettate istantaneamente sulla parete frontale e sulle laterali della scenografia cubica, la scatola appunto. L’inserimento del pubblico non solo nella scenografia, ma anche nel soggetto stesso di Die Schachtel, è fondamentale per lo spettacolo. La scelta di proiettare la platea sul fondo e sui lati della «scatola» si diversifica dall’inclusione del pubblico negli spettacoli tipica dell’happening; in quest’opera il pubblico infatti non partecipa attivamente, anzi, si ritrova catapultato all’interno della scenografia. La soluzione ideata da Nonnis, infatti, prevedeva che il pubblico vedendosi proiettato sui tre lati della scenografia vivesse quella sensazione di alienazione dispercettiva paradigmatica per lo spettacolo; e che non fosse più in grado di distinguere contenuto e contenitore, venendo in qualche modo inglobato nella «scatola».
La mostra ospitata dalla Galleria Nazionale, custode del fondo dell’artista, presenta circa un centinaio di opere di Nonnis prodotte dal 1959 al 1965. È la prima personale dopo la prematura morte dell’artista (nel 1991, poco prima della sua scomparsa, era stata ospitata dal Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza Università di Roma una personale curata da Simonetta Lux).

«La Maiastra» o «Schizzo per Monotipo per Le Comete moribondanti da Hilarotragedia», immagine realizzata su carta intestata Nuova Consonanza, 1962-1965

 

ECLETTICA NATURA
Curata da Maurizio Farina, Francesco Mozzetti e Guido Rebecchini, la mostra ripercorre l’opera di Nonnis su tela, su carta e con una selezione di materiali più eterogenei che testimoniano la sua eclettica natura. Presenti anche opere in collaborazione con grandi artisti e amici come i collage realizzati con Alfredo Giuliani o ancora il monotipo creato per Le Comete moribondanti da Hilarotragedia, testo cult di Giorgio Manganelli. Ma anche la sua attività da scenografo trova spazio all’interno dell’esposizione, grazie ai bozzetti e agli schizzi riconducibili al primo periodo della collaborazione con Antonio Calenda e il Teatro Centouno, che vede Nonnis impegnato soprattutto a Roma. Seppur leggermente successiva all’ultimo anno trattato dalla mostra – il 1965 – uno spazio per Die Schachtel è d’obbligo, con numerosi schizzi di studio per le varie scenografie dell’opera e i molti appunti presi sulla carta intestata della rivista Grammatica, che specificano le volontà dell’artista per le future rappresentazioni dello spettacolo – appunti di diario poi raccolti e pubblicati proprio sulla rivista Grammatica in La Scatola. Musica di Franco Evangelisti. Testo e guida per una messa in scena. Insomma, un «eclettico Leonardiano» – come lo definiva in alcune lettere Franco Evangelisti – che proprio alla Galleria Nazionale può convive tra un Burri e un Fontana, tutte influenze di questo grande protagonista della seconda metà del Novecento.

Dipinto dalla serie «Mani», 1962-1965