Angela e Yervant, Yervant e Angela. Per gli amici erano, sono, una coppia inscindibile nella vita e nell’arte. Sempre insieme, in una fusione simbiotica di sguardi e sensibilità, diversi e complementari, uniti nelle singolarità. Invitarli e cena significava sentirsi dire: «Ma perché non venite voi da noi?» e così finiva che ci si trovava nella loro cucina accogliente a mangiare piatti cucinati da Angela e che ricordavano le sue origini romagnole di cui lei conservava un leggero accento nonostante abitasse a Milano da alcuni decenni. Attorno a quella tavola si parlava di cinema, arte, politica, viaggi, letteratura, mostre, progetti, disperandosi di come va il mondo, di come guerre, dittature e ingiustizie continuino la loro opera mortifera e asfissiante. Angela era una donna generosa e accogliente. Appena entravi da lei ti chiedeva se volevi bere o mangiare qualcosa. Aveva idee chiarissime su fatti e persone e le esprimeva con lucidità inappellabile, guardandoti in faccia con i suoi grandi occhi marroni.

Angela era anche una raccontatrice ironica, sapeva cogliere il lato comico delle situazioni, sapeva ridersi addosso e sdrammatizzare, come quando un vicino di casa, facendo dei lavori, le riempì di polvere e calcinacci la cucina e lei raccontò la cosa come un’avventura alla Jacques Tati. Minuta e non alta, i capelli sempre lucidi e diritti come spaghetti, aveva un’idea della femminilità che concedeva pochissimo alla civetteria. Perennemente vestita di scuro, due cerchietti d’oro alle orecchie e, al massimo, una collana semplice, sapeva però cogliere con un commento o un apprezzamento l’eleganza altrui, da vera osservatrice.

Angela aveva un pessimo rapporto con le lingue straniere e non faceva nulla per nasconderlo. Quando c’era un dibattito dopo la presentazione di un loro lavoro, se c’era da parlare inglese lasciava fare a Yervant oppure parlava in italiano e lui traduceva, se c’era da parlare francese cuciva insieme qualche parola e poi mollava il microfono a lui. Non gliene importava nulla di essere poliglotta, il suo linguaggio universale erano i film e gli acquerelli.

Ecco gli acquerelli. Oltre a costituire la tessitura del lavoro filmico della coppia Ricci Lucchi-Gianikian, erano il suo modo, e solo suo, di raccontare la visione del mondo, gli appunti di viaggio, i diari, le letture, ciò che la colpiva o impressionava. Il suo bellissimo rotolo lungo 15 metri e alto 80 centimetri con le novelle armene che fu esposto per la prima volta nella personale Non Non Non a loro dedicata all’Hangar Bicocca, nel 2012, mostra come e il suo sguardo, e la sua mano, riuscivano a rendere poetiche anche scene cruente e crudissime. Poche pennellate acquose colgono l’essenza di un racconto e lo sintetizzano in una scena magica. Quando mi sono sposata, nel 2009, con il mio unico e speciale marito, Giairo, al matrimonio vennero anche Angela e Yervant.

Consideravamo la loro presenza già un regalo carissimo. Invece pochi giorni dopo ci arrivò una sorpresa molto speciale. È un acquerello di Angela che ci raffigura in cima a una torta nuziale a più piani. Nell’immaginazione di Angela io indosso uno svolazzante abito rosso e Giairo un abito blu operaio. Io tengo in mano una falce e lui un martello. Lo abbiamo messo nella camera da letto così ogni mattina, appena alzati, ci saluta e ci guarda. Da ora in poi, ogni mattina, incontrandolo penseremo ad Angela e Yervant, Yervant e Angela.