«L’epifania fu il cubismo»: imponente come un samurai della Jisho-Juei no ran incapsulato nella sua corazza, il volto scavato, le false ciglia di visone e il naso aquilino parti anch’essi, inseparabili, della corazza – o magari come un enorme insetto ritto sulle zampe posteriori e gli occhi mobili, nerissimi. Erano difese, naturalmente, teatrali mascherature, non scevre da una dose d’ironia, e dietro le difese: Louise Nevelson, née Lea Berliawskij, figlia di agiati commercianti, venuta al mondo a Perislov, governatorato di Poltava, Russia, il 23 settembre 1899, professione scultrice. Era arrivata negli Stati Uniti a sei anni, la famiglia convinta a emigrare perché la chiusura dei ghetti voluta da zar Alessandro III aumentava i rischi delle persecuzioni, e aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza a Rockland, Maine; avrebbe sposato il ricco, raffinato signor Nevelson, ne avrebbe avuto un figlio, avrebbe divorziato, sarebbe morta alla vigilia dei novant’anni, a .D. 1998, a New York.
«Come per Zadkine» replicai: «il cubismo».
Aspirò una boccata dalla sigaretta prima di rispondere. Poi, perentoria, «Zadkine lavora la pietra».
Ripetei, «D’accordo, lavora la pietra».

A Roma, quarant’anni ormai dall’incontro, la casa di Toti Scialoja in piazza Mattei o forse i locali della galleria Marlborough, via Gregoriana, il luogo: Nevelson arrivava da una mostra a Milano e aveva fretta di tornare a casa.
Nessun dubbio sull’importanza del cubismo, a orientare la signora – uno dei più grandi scultori del Novecento come conferma, fosse necessario, la bella mostra (chiude il prossimo luglio) allestita a palazzo Sciarra dalla fondazione Roma Museo in collaborazione con la fondazione Marconi, la Louise Nevelson Foundation e sotto il patrocinio dell’Ambasciata degli Stati Uniti. Accanto al cubismo, però, c’era anche qualcosa che nessuno le avrebbe potuto insegnare e trovava origine in famiglia – la visionarietà ebraica che si traduceva in lei, come già per Kandinskij e il contemporaneo Mark Rothko, in un senso religioso, mistico, dell’arte e della sua ineludibilità. Fu un’attività che Nevelson non abbandonò mai, neppure dopo la crisi del ’29 dalla quale anche la famiglia del marito venne travolta e non era l’arte che poteva aiutarla a sopravvivere nel quotidiano. Un lavoro part-time da commessa in qualche grande magazzino, Macy’s, Bonwit and Teller, magari appena due ore al giorno dietro il banco per guadagnare un minimo da tirare avanti? Preferì il rischio della povertà, senza nessun eroismo ma piuttosto, come avrebbe detto anni dopo, poiché «volevo costruire un impero e non potevo permettermi di frammentare il tempo». Poi, «Nessun ostacolo era grande abbastanza da frapporsi permanentemente tra me e la mia arte ed è lì che io ero felice».

Infine un terzo elemento, nella formazione della signora e questo decisamente americano, importante altrettanto dei collage cubisti a orientarla verso gli assemblage di objets trouvés, cifra costante delle sue sculture già nel breve periodo concettuale: la giovinezza trascorsa sulla costa del Maine dove l’Atlantico continuamente trascina a riva relitti di naufragi, pezzi di gomene incatramate, frammenti d’alberi scarnificati dall’acqua, ridotti a forme essenziali.

Gli inizi, a giudicare dalle testimonianze della mostra, furono lavori su pietra e gesso con incisi misteriosi graffiti e dipinti di nero, oggetti magici, micro-totem o frammenti d’ossa scuriti dal tempo, dispersi, si direbbe, da qualche cimitero abenaki – i pellerossa che, prima degli europei, avevano abitato i luoghi. Poi venne l’incontro con il cubismo e si tradusse in forme spigolose, grandi pettini di legno, infine porte o pareti composte da frammenti di cornici, gambe di tavolo, sedie inchiodate su qualche tavolaccio anch’esso tenuto insieme da chiodi, il tutto dipinto di nero. Non mancarono tentativi di usare il bianco («il colore più gioioso») su totem o dischi anch’essi composti con materiali di recupero, o combinazioni di bianco, nero e oro, o scatole d’oggetti (maniglie, frammenti di modanature) dipinti tutti in oro. Ricordo del prozio paterno Issaye Berliawskij, pittore di icone ed edifici pubblici?

«L’oro rappresentava il sole ma era anche l’America delle mitologie popolari russe, le strade delle città lastricate d’oro». E, «Con il bianco e l’oro volevo sperimentare con la luce e le ombre, mi consideravo un architetto delle ombre e della luce». Non sempre apprezzabili, però, i risultati, alquanto cimiteriali anche nel caso di installazioni nuziali – nell’opinione di chi scrive. Fortunatamente, ci fu un ritorno al nero.
«Mi accorsi che conteneva tutti i colori ed era il massimo, il colore più aristocratico, per me».
La matrice cubista è più evidente nei grandi assemblage dove gli oggetti dipinti di nero sono drammatizzati, a creare un senso prospettico, contro tavolati in legno grezzo, anche qualche inclusione di rosso nelle composizioni, ricordi più che di Bracque e Picasso, del più giovane e «naturale» membro del gruppo, il señorito, come lo chiamava Picasso, geloso dell’abilità dell’allievo, Juan Gris. Sperimentazioni parallele sono i recuperi di ciò che l’artista aveva visto a Parigi negli anni trenta al Musée de l’Homme allora in corso d’installazione – oggetti africani d’uso quotidiano e totem mostruosi dell’area del Pacifico, soprattutto quelle porte di granaio dogon dove la forma scultorale scavata nel lucchetto si confonde nelle venature del legno e, come le pitture dayaki sulle prue delle barche, ha insieme un’utilità pratica e una funzione magica, propiziatoria.

Ci fu anche un periodo di sperimentazioni in fonderia, gli oggetti non inclusi nella mostra, e permisero a Nevelson di inserirsi nella scena pubblica americana con grandi sculture metalliche, in primo luogo nella città dove adesso viveva, New York. Si può supporre che sia stato il passaggio all’acciaio a portarla verso le astrazioni di reticoli via via più monumentali che contengono sfere e maniglie tutte della stessa grandezza, in bell’ordine all’interno di scarne, geometriche cornici: come libri sugli scaffali di una biblioteca. Analoga l’origine dei totem dove è la struttura interna alla forma, non più le sue componenti, a evocare oggetti famigliari; o di obelischi (sempre in legno dipinto di nero) il cui reticolo ricorda coeve costruzioni in acciaio di Arnaldo Pomodoro come Cono tronco, 1972, Doppia porta, 1979, fino agli Obelischi, 1988. E tuttavia: mentre in ogni opera di Pomodoro la geometria dell’oggetto è costantemente violata da una lacerazione a esprimere l’impossibilità di costruire un mondo avulso dalle contraddizioni che l’artista scopre dentro e fuori di sé, il dolore implicito in ogni creazione un riflesso dell’impatto delle astrazioni delle forme al contatto con la brutalità del «reale», in Nevelson la scoperta degli equilibri inerenti a ogni struttura sembra suggerire una conquistata pacificazione. Persiste anche nelle costruzioni più drammatiche come nel lungo muro (ancora in legno, ancora dipinto di nero) a ricordo dell’Olocausto, così in altre realizzazioni degli anni settanta, Tropical Landscapes, City Series, che sembrano richiamare il mutevole equilibrio architettonico di New York – continuamente rinnovato ma, non appena distrutto, ricostruito.

Ma forse è improprio parlare di pacificazione perché anche negli «equilibri» formali persiste in Nevelson la ferocia della ricerca. Si tratta semmai (forse) della certezza raggiunta dall’artista di essere nient’altro e soprattutto ciò che in anni di lotte e delusioni e sconfitte finalmente s’era fatta, serrando la passione per l’arte (o il sogno, o la follia) tra i denti come un cane l’osso, mai dubitando che un giorno per quanto remoto, quel sogno si sarebbe realizzato. Ed è questa certezza, insieme alla ferocia e ben più delle liturgie della naturalizzazione, che di questa ebrea russa che non aveva mai scordato le sue origini faceva un’americana. «In America non esistono secondi atti» lamentava Francis Scott Fitzgerald, annaspando tra vortici d’alcol e disperazioni famigliari e identificandosi con il più romantico dei suoi personaggi ma non completava la frase. Più esatto sarebbe stato affermare che il successo del primo atto non è mai permanente, nulla è mai acquisito (o non lo era) in quel paese, tutto doveva essere riconquistato ogni volta che si tornava su scena. E occorrevano corazze per accettare le sconfitte e andare avanti, durezze, nascondendo le angosce.