C’è un verso di Dante che potrebbe cogliere il gesto più tipico, e persino l’etimo psicologico, dell’arte di Emilio Isgrò: «ma tu che sol per cancellare scrivi» (Par. XVIII, 130). Dante lo riferiva a un papa fedifrago e opportunista, ambiguo fustigatore di eretici, ma al presente quello stesso verso si ricarica di un senso imprevisto se riferito a un artista eretico sul serio come alla pratica che, da oltre cinquant’anni, testimonia la sua produzione (il suo esistere, il suo senso compiuto) per il tramite di una cancellazione sistematica dei segni scritti nei libri o in quelli ricevuti da quanto fu detta, arnia ronzante e centrifuga, rediviva Babele, la Semiosfera.
Con acribia e candida ossessione, il pennarello nero di Isgrò ha oscurato le pagine di opuscoli, giornali, come di libri canonici della cultura occidentale (diede scandalo da noi, nel 1970, si fosse permesso di cancellare addirittura la Treccani), tuttavia il suo orizzonte ovvero il fine del suo gesto non è la tabula rasa perché mai e poi mai Isgrò ha ceduto al mito del bianco totale o della perfezione silenziosa. Libero da obbedienze di scuola e di poetica, viceversa carico dell’umorismo che hanno i fuoriclasse e i pìcari, o forse solo gli autentici mutanti, nel gesto di Isgrò, ab origine, non si accampa il nichilismo ma si impone una capacità distintiva e selettiva che è d’ordine innanzitutto critico. Da quella nerezza bitumosa, da quella spossante e abrasiva regolarità, infatti, residua sempre un minimo nucleo seminale o germinale, parole o frammenti di parole scampate all’oscuramento e in cerca di una connessione ulteriore, segni sopravvissuti e galleggianti come le aste e i tondini di una grammatica da ricostruire e perciò ancora tutta da decifrare. Insomma il suo è un gesto di critica e anzi di ecologia, un necessario sottrarsi (e rispondere con disarmata dignità) alla invadenza delle parole, delle immagini e dei suoni che, proliferando, inducono paradossalmente a cecità, sordità, afasia. Isgrò ne conosce in prima persona le dinamiche perché è un poligrafo misuratosi con qualunque genere di partitura, dalla poesia lirica (esordì nel ’56 con Fiere del Sud nelle benemerite edizioni di Arturo Schwarz) alla poesia concreta e visiva, dal giornalismo culturale al teatro e al romanzo fino alla continua metamorfosi, almeno dal ’64 (che per sé ritiene l’anno zero), di quella che per obsolescenza di etichette si potrebbe definire, prima che concettuale, un’arte continuamente in fieri.
Segni scritti salvati dal buio
Che Isgrò abbia sentito l’impulso già negli anni settanta (il titolo del ciclo era allora Lettere estratte) di salvare dal buio e dal silenzio un minima eredità di segni scritti ne è oggi una bellissima riprova, a tanta distanza di spazio e di tempo, la preziosa mostra intitolata Lettere, a cura Marco Bazzini, il suo maggiore specialista, e Daniela Simoni, operosa e intelligente responsabile della Casa Museo-Centro Studi Osvaldo Licini che ospita la mostra medesima (aperta fino al 4 novembre, info: www.centrostudiosvaldolicini.it, tel. 3349276790). L’insediamento negli ambienti e l’accostamento alle opere di un genio della pittura secolare quale Licini non ha nulla di azzardato o di forzato e anzi, specie in taluni frangenti, realizza consonanze impreviste pure se, ovviamente, da traiettorie diametrali. Licini è un leopardiano reduce da Parigi e dai tumulti dell’avanguardia, mentre il suo cielo disertato, d’un azzurro splendidamente rovinoso (quasi blue marine, che è il vasto mare della vita interiore), può solo popolarsi di presenze ellittiche, rapidi e non meno propizi traccianti quali gli Angeli Ribelli, gli Olandesi Volanti, le sue Amalassunte. Lì, fin dal vestibolo adiacente alla Casa Museo, cioè nel vano centrale dei tre che compongono il Centro Studi, si dispiega a tutta pagina una misteriosa alleanza: in fondo, sulla destra, c’è un Angelo Ribelle di grandi dimensioni (stavolta virato in ocra, con il nero a predella tagliato da una falce di luna) quando a destra il pannello di Isgrò, Virgola raccolta da I promessi sposi di Alessandro Manzoni, è un cielo tutto quanto di biacca in cui volita soltanto l’orfano di ogni interpunzione, un segno abbandonato, la virgola, che ha la maestà di una piccola Nike post-diluviana. Ed è un accoppiamento ribadito, in minore, al pianoterra della Casa Museo dove un antico Licini ancora memore dell’avanguardia (nel suo cielo stavolta galleggiano consonanti e vocali di una sciarada cubofuturista, peraltro goliardica) si specchia in una tra le cancellazioni più implacabili e austere di Isgrò. Qui va detto, per inciso, che Osvaldo Licini non soltanto era nato futurista (ai tempi dell’Accademia di Bologna con Vespignani e Giorgio Morandi) ma aveva esordito addirittura da scrittore, in effetti più scatologico che paroliberista, con quei Racconti di Bruto che aveva originariamente e ufficiosamente intitolati Racconti della merda: dunque Licini sapeva da sempre che anche il segno linguistico, in sé e per sé, non è innocuo né innocente e che diventa sacro solo se è davvero necessario.
È invece un omaggio dichiarato di Isgrò quanto si contiene nel piano interrato, l’ex cantina con le volte a botte che prende luce da aperture laterali, adibito a spazio espositivo con il recente restauro della Casa Museo. Ai lati alcune opere d’annata, vale a dire nel fuoco dell’arte concettuale come la celeberrima Poesia Jacqueline (1965), appesi nel supporto centrale stanno due pannelli simmetrici, entrambi bianchi e occupati entrambi da un grumo scuro che simula rispettivamente una lettera maiuscola, l’uno una L, l’altro una O, le iniziali del maestro. Quei segni aggrumati non sono nemmeno più lettere dell’alfabeto ma formiche al lavoro, emblemi di una eterna distruzione che è anche ostinata costruzione, e viceversa. Del resto, tornando all’origine della propria vocazione, scrive Isgrò nel suo libro autobiografico (Autocurriculum, Sellerio 2017): «Per uscire definitivamente dalla logica novecentesca delle avanguardie, realizzai il gesto che le stesse avanguardie non avevano osato: vanificare in una volta sola, con un tratto nero di pennarello, i vecchi codici della comunicazione umana: principalmente l’immagine e la parola. Per questo l’era digitale non mi ha trovato spiazzato»; e aggiunge: «Rovesciare il tavolo, come io feci con le cancellature, non significava distruggere la parola, ma salvaguardarla per tempi migliori: per quando, cioè, la capacità di riflettere si sarebbe finalmente saldata alla necessità di creare».
Memori del paradosso di Dante
Emilio Isgrò ne ha sentita l’impellenza e l’ha presto radicalizzata o, per così dire, ha portato alle estreme conseguenze l’intuizione di qualcosa che, più o meno volontariamente memori del paradosso di Dante, hanno anche avvertito alcuni grandi poeti dell’ultimo secolo pure se del tutto estranei all’avanguardia. C’è un verso di Philippe Jaccottet che afferma lo splendore come risultato di una cancellazione («l’effacement soit une manière de resplendir») e c’è un distico di Franco Scataglini secondo cui vita e scrittura sono simili perché cancellano all’infinito una vicenda dolorosa e colma di errori («tuta scancellatura/ dopo dulor de sbai»): sono versi lancinanti e inopinatamente consanguinei, nella loro concisione sapienziale, ed è pensabile li avrebbe sottoscritti anche un leopardiano indocile, generoso e irredento, come Osvaldo Licini.