Durante una recente conversazione, il regista Walter Hill mi ricordava che, a volte, un budget veramente stracciato come quello del suo ultimo film, Nemesi, è una sorta di piacere proibito, un’opportunità di spingersi oltre, «permettersi delle scorciatoie», essere «arditi per forza», di non prendere le cose troppo sul serio.
Con Thor: Ragnarok, il regista kiwi Taika Waititi (padre maori mamma di origine ebreo/russa; aveva diretto due successi indie neozelandesi -il mocumentary horror What We Do in the Shadows e la commedia Selvaggi in fuga) applica quel principio del piacere proibito a 180 milioni di dollari. L’idea, dice Waititi quando parla del film, era quella di trasferire il feeling famigliare, intimo, dei suoi lavori precedenti a un megablockbuster, portando una ventata di freschezza a una delle storie finora più sottoutilizzate del Marvel Comic Universe.

Il biondo re Thor (Chris Hemsworth, pare complice, se non addirittura iniziatore, della virata demenziale della franchise) si trasforma così in una specie di Jack Burton/Kurt Russell intergalattico, un eroe semiserio come quello di Carpenter in Grosso guaio a Chinatown. Suo padre Odino (Anthony Hopkins) si ritira in cima a un fiordo norvegese con un insieme giacca/camicia color salmone. E il crudele fratello adottivo Loki (Tom Hiddleston), un personaggio byroniano come ridisegnato da Tim Burton, governa Asgard sotto false spoglie, mettendo in scena ricostruzioni drammatiche della sua morte come un imperatore romano pazzo.

L’uscita di scena di Odino coincide con l’apparizione di Hela (Cate Blanchett, vestita come Cher quando ha preso l’Oscar, e dalla cui acconciatura si estendono rami neri come quelli della foresta di Biancaneve) sorella esiliata e cattivissima. Quando lei si impadronisce di Asgar, Thor e Loki finiscono rottamati su un pianeta spazzatura – a cui manca il senso d’importanza cosmica che affligge Blade Runner, probabilmente perchè sembra disegnato in stile Sixties da un architetto inglese in acido, e perchè è comandato dal Grandmaster Jeff Goldblum che ricorda il grande sacerdote di Blood Feast di Hershell Gordon Lewis solo vestito con i colori di Superman.

Se, con i due Guardiani della Galassia, James Gunn ha introdotto una dimensione picaresca, scanzonata, nella lettura hollywoodiana dell’universo Marvel, e Scott Derrickson ne ha esplorato una versione più pretenziosa, pseutointellettuale con Dr. Strange, la cifra di Waititi e’ il camp. Eccessivo, gioioso, insaziabile.
Thor: Ragnarok schizza –sulle note di Immigrant Song dei Led Zeppelin, scelta geniale già da sé- come una pallina da flipper (o come una travel comedy di Bing Croby e Bob Hope, hanno notato in molti) tra inferni sotterranei, verdi picchi europei, fortezze dal look medioevale, salottini optical bianchi e neri, astronavi scassate e battaglie da fiaba; tra texture che vanno da immagini puramente liquide, al fotorealismo, al cartoon più stilizzato. È il cinema come good time, bell’accezione dei Safdie. Un kolossal irriverente sulla memoria del cinema, della TV, della cultura pop, che la celebra e la dissacra senza contraddizione. E una delle declinazioni più felici del Marvel Comic Universe fino ad oggi.