La tensione è ancora alle stelle nelle città turche. E cresce la protesta dei lavoratori, mobilitati dai principali sindacati. Contestano la brutalità della repressione della polizia e chiedono al premier di lasciare il potere. Urlano «Tayyip dimettiti» e marciano verso piazza Taksim a Istanbul o nel parco Kizilay di Ankara. Allo sciopero generale, indetto dalla Confederazione dei sindacati del settore pubblico (Kesk) ha aderito anche il Disk (Confederazione dei sindacati progressisti). I lavoratori hanno incrociato le braccia alle 12 di ieri, dopo essersi presentati al lavoro vestiti di nero, in segno di lutto per i manifestanti uccisi nei giorni scorsi. Mentre alcuni rappresentanti degli attivisti anti-governativi hanno incontrato ieri il vicepremier turco Bulent Arinc chiedendo la rimozione dei capi della polizia di Istanbul e Ankara, e di altre città. «Devono essere mandati via i responsabili della polizia che hanno ordinato queste violenze», hanno aggiunto in un comunicato.

A tenere banco ieri, la querelle sull’autenticità della democrazia turca dopo le violenze dei giorni scorsi, tra Stati uniti e Ankara. «La Turchia non è una democrazia di seconda classe», ha detto il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu, rispondendo ai timori, espressi da Washington, sull’uso eccessivo della forza nei confronti dei manifestanti. In realtà, in pochi giorni, il Dipartimento di Stato ha emesso quattro comunicati sulla crisi politica turca. Nell’ultimo in ordine di tempo il vice-presidente Joe Biden ha chiesto al governo turco di rispettare i diritti degli oppositori politici. Il Segretario di stato americano, John Kerry, si era detto «profondamente preoccupato» per le notizie dei feriti nella repressione delle proteste. «In Turchia esiste il diritto a manifestare. Rispettiamo le manifestazioni pacifiche», ha risposto Davatoglu.

Anche il presidente russo Vladimir Putin ha auspicato che «le autorità turche, dialogando con l’opposizione e la società civile, riescano a trovare la soluzione ai difficili problemi che si affrontano oggi nelle piazze e che le azioni di protesta assumano una forma legittima». Preoccupazione dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani per «le informazioni su un uso eccessivo della forza da parte di agenti delle forze dell’ordine contro i manifestanti» e ha chiesto al governo turco indagini «tempestive, complete, indipendenti e imparziali».

Appello del ministro degli esteri italiano Emma Bonino all’Ue affinché «scenda in campo, è in gioco «la democrazia turca»: «L’Italia deve continuare con forza la politica di apertura alla Turchia e tentare di convincere altri partner europei recalcitranti senza per questo tacere su punti specifici della politica turca che riteniamo inaccettabili». Proprio la Corte europea dei diritti umani ha condannato ieri Ankara per aver violato i diritti di Gullu Ozalp Ulusoy, una cittadina turca, picchiata dalle forze dell’ordine in una manifestazione a Istanbul del 2004. La donna stava manifestando per commemorare le vittime del massacro di Halabja avvenuto nel 1988 e la morte di sette studenti davanti alla facoltà di medicina di Istanbul a seguito di una esplosione il 16 marzo 1978.

E il fronte si allarga agli intellettuali turchi. Lo scrittore e premio Nobel Orhan Pamuk ha espresso il suo sostegno al movimento. «Il governo quest’anno ha vietato le manifestazioni del primo maggio. Mi dà speranza vedere che le persone non abbandonano le loro memorie e il loro diritto alla protesta politica», ha scritto Pamuk. Non sono mancate poi le proteste cibernetiche. Gli informatici di Anonymous hanno hackerato la pagina internet del premier Erdogan. Il 2 giugno Anonymous aveva lanciato l’operazione #OpTurkey con attacchi contro i siti ufficiali del paese.