Mentre in tutte le parti d’Italia si prepara il grande sciopero dell’8 marzo, la trentaduenne Federica Madau residente a Iglesias, un centro del cagliaritano, ha perso la vita.
A ucciderla l’uomo che aveva sposato (Gianni Murru, 46 anni) che non accettava la separazione chiesta dalla moglie due mesi fa. Madau lo aveva già denunciato due volte ma non è comunque riuscita a salvarsi. Alla faccia, si dirà, della Corte europea di Strasburgo che solo ieri ha condannato lo Stato italiano per non aver saputo dare seguito sufficiente alle denunce di Elisaveta Talpis (nel 2013), poi ammazzata dal proprio coniuge (ne ha scritto proprio ieri in queste pagine Eleonora Martini).
Ieri sera verso le 20.30 Federica Madau è andata a prendere i suoi figli che avevano trascorso il pomeriggio dal padre ed è proprio a quel punto che il femminicidio si è consumato. Una lite a cui sono seguite circa dieci coltellate, mentre le tre figlie piccole erano chiuse a chiave in una stanza. L’assassino e femminicida Murru quando chiama la polizia specifica di aver ucciso la moglie con un «coltello da Rambo» e aver risparmiato dalla vista le bambine.
L’impotenza clamorosa che emerge dalla specifica della modalità «Rambo» è inaccettabile e nauseante quasi quanto la violenza premeditata, annunciata e poi compiuta. Come se fosse ineluttabile, ha risuonato tutta intera – nelle voci, nella disperazione e infine nella soppressione della propria madre – a quelle bambine, orfane loro malgrado. A vederne le foto hanno dei visini minuti e senza sorriso; sono indifese come tutte le creature piccole, come lo è stata Federica Madau a cui non è restato che morire per aver scelto di separarsi dal proprio coniuge. Morire per aver scelto la propria libertà, per mano di un maschio che non ha accettato di essere abbandonato, è una storia drammatica che si ripete. Qualche mese fa a Sassari a un’altra donna, di 65 anni, è toccata la stessa fine dopo essere rientrata nella casa coniugale e aver informato il marito dell’avvio della separazione legale.
In questo quadro, quasi niente si conosce delle relazioni esterne che sostenevano le donne in questione, che tessuto cioè potesse o no aiutarle o fare sponda per uscire dalla violenza. Non è certo l’unico modo possibile, ma la mancanza di centri antiviolenza in Sardegna aggrava lo scenario. Sarebbe un bel segnale se quei pochi laboratori di libertà rimasti, provenienti spesso da pratiche femministe, venissero supportati in ogni modo possibile, invece di essere vessati da finaziamenti insufficienti. Con le operatrici e con quelle donne che ci lavorano da decenni bisognerebbe parlare costantemente, dovrebbero anche le istituzioni spesso schizzinose quando non miopi.