Epicentro della modernità, nella seconda metà dell’Ottocento Parigi è un magnete irresistibile per le ambizioni di molti artisti italiani. Più che una moda, andarci era una risorsa: nessun posto più della capitale francese poteva dirsi, infatti, piazza migliore per guadagnare fama universale. «La Francia è la terra in cui uno di talento può diventare ricco assai» dirà il napoletano Vincenzo Gemito.
Ed è proprio a Napoli che si tiene in questi giorni, e fino all’8 aprile, la mostra Da De Nittis a Gemito I napoletani a Parigi negli anni dell’Impressionismo (Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano, a cura di Luisa Martorelli e Fernando Mazzocca), tentativo di ricostruire questo pezzo di storia dalla visuale degli artisti meridionali che a Parigi si riferirono per inventare le radici della figurazione nazionale.
L’esposizione gioca la sua tensione tra le vicende individuali e la storia generale, mettendo in evidenza le sfaccettature dei napoletani in trasferta e focalizzandosi su generi e tecniche diverse. A tutti gli effetti, è sottoposta al visitatore una temporanea prosecuzione della già ricca collezione ottocentesca di Palazzo Zevallos.
Ad accoglierci, in principio, c’è l’abruzzese Giuseppe Palizzi. Lo incontriamo nel suo atelier abituale, la foresta di Fontainebleau, nell’Autoritratto della Galleria dell’Accademia di Napoli. Segue una serie di vedute rurali, con La caccia al cervo e Il mercato dei cavalli. Paesaggi che confermano come il pittore trovò Oltralpe il naturale bacino di espansione per le ricerche all’aria aperta della Scuola di Posillipo, traducendo il vedutismo di gusto lirico di inizio secolo in una ripresa reale.
Il Bagno pompeiano di Domenico Morelli – appaiato, nella seconda sala, all’Esame del Sant’Uffizio di Gioacchino Toma, con cui condivise l’Esposizione Universale del 1867 – segna un cambio di rotta (il verosimile soppianta il vero) e introduce adun nuovo campo di sperimentazione, quello del racconto storico. Impersonale come una fotografia, scientifico come un resoconto archeologico, vibrante come una pittura vivace sa essere: fuori dal fondale consueto, il passato rievocato da Morelli è straniante.
Ricostruire una storia della colonia meridionale in Francia non può prescindere dal più fortunato tra quei pittori, Giuseppe De Nittis. Nessuno meglio di lui visse Parigi come casa propria, protagonista di una scalata inarrestabile che lo portò ai primi posti della società francese. La mostra traccia un quadro eloquente del suo lavoro. Le Vedute del Vesuvio sono un accurato reportage dell’eruzione del 1872, mentre scenari urbani come Alle corse di Auteuil restituiscono l’atmosfera dinamica della città dei boulevard.
Dotate di un sottile spirito caustico, le opere di Francesco Netti si prestano bene a fare da contraltare all’equilibrismo ossequioso di De Nittis verso gli ideali borghesi. Pensiamo, ad esempio, alla Sortie du bal in cui la compagnia di netturbini solleva un vortice di polvere dalla forte portata metaforica, risucchiando le maschere che tornano a casa dai bagordi notturni.
È doveroso notare a questo punto come il paradigma vincente di De Nittis fece da preludio a tutto un proliferare di annacquamenti di compromesso. Ne scaturì la metamorfosi della «pittura della vita moderna» teorizzata da Baudelaire da istantanea metropolitana a specchio di vanità, con la conseguenza che a fuggire dalla costrizione accademica, i pittori italiani si trovarono ingabbiati nella dittatura del mercato. Il percorso di Edoardo Tofano, virando dal verismo storico della Monacazione di Maria Spinelli ai sentimenti leziosi di Enfin… seuls (in cui una coppia di freschi sposi conosce la prima intimità), ne è chiarificatore. Sono certo queste le opere ad aver patito di più il tramonto del XIX secolo.
Fortuna che a rimettere le cose a posto ci pensa l’Acquaiolo di Vincenzo Gemito. A fargli da contorno sono le marine luminose e dolciastre di Antonino Leto e Alceste Campriani. A parità di soggetti, però, Gemito è del tutto superiore. Il processo creativo a cui sono sottoposte rende le sue figure delle entità ibride, sul crinale tra reminiscenze antiche e una concretezza nervosa. L’impressione è che l’eterno si faccia contingente, e viceversa. Di una sfrontatezza selvaggia, lo scugnizzo che vende acqua è sospeso nel momento della concitata offerta. Gli è parente il Pescatore del Museo del Bargello di Firenze, un ragazzino che nello staccare la preda dall’amo, la tiene a sé come se volesse guizzare via.
La predilezione per la raffigurazione di scugnizzi napoletani, portatori di quel carico di tormento e solarità che è finito col diventare il genius loci del Sud, rende Antonio Mancini gemello ideale di Gemito: anche qui creature colte in una malinconica ristrettezza sull’ultimo gradino della scala umana. La sua scrittura è inconfondibile. Una pittura sporca e disordinata, col colore che si aggruma e lascia materializzare sulla tela i segreti dell’esecuzione.
A bilancio, non si può che concordare con i tanti studi che hanno anticipato la strada di cui questa mostra è solo l’ultima puntata. La dialettica tra Napoli e Parigi si sviluppò con accenti del tutto peculiari e la natura dello scambio fu reciproca. Nonostante la perdita del rango di capitale con l’Unità, Napoli potè vantare a suo favore un tessuto artistico di varietà e ricchezza uniche.