Con la proiezione di Lupino di François Farellacci, si chiude il concorso internazionale di Filmmaker, festival che come negli anni passati ha proposto una sezione competitiva composta da autentici fuoriclasse del cinema. Farellaci, in concorso al Festival di Torino con i suoi film precedenti, stasera presenta in anteprima mondiale il suo nuovo lavoro scritto insieme a Laura Lamanda, complice in più di un’occasione del regista corso, e premiato nel 2013 con il Premio Solinas per il documentario. Pur non vantando lo stesso curriculum di un Voelker Koepp, di un Ossama Mohammed o di un Lav Diaz, solo per fare alcuni dei nomi più noti che con i loro titoli hanno riempito le sale dello Spazio Oberdan e del Cinema Arcobaleno, Farellacci ha in comune con i suoi colleghi la stessa sensibilità cinematografica, l’identica intenzione di cercare un linguaggio che sia al servizio della storia. Né un esercizio di stile, quindi, né un prodotto destinato a consumarsi nel solo evento festivaliero, piuttosto un film dove emerge la volontà di interrogarsi su come narrare frammenti di vita, in questo caso quella di alcuni ragazzi cresciuti a Lupino, un quartiere popolare e periferico di Bastia, in Corsica.

In modo drastico, Farellacci non fornisce alcuna spiegazione, non spiana la strada con delle premesse, concede allo spettatore solo qualche fugace immagine di repertorio e alcune fotografie utili a riflettere un momento prima di ricominciare a inseguire i protagonisti per le vie di Lupino. E va aggiunto che nemmeno questi inserti svelano dove abbia avuto inizio la storia e come andrà a finire. Anthony, Orsu e Pierre-Marie sono adolescenti intercettati in un momento della loro esistenza che appartiene solo a loro. Forse, proprio per rimarcare questa radicale unicità, non è concesso spiegare con occhio esterno cause e motivazioni di ragazzi che altrimenti verrebbero sacrificati al cospetto della categoria «giovani d’oggi».Non v’è dubbio che possiamo riconoscere in alcune espressioni volgari, nelle esplosioni ormonali, nel mettersi in mostra e negli improvvisi stati depressivi, le tipiche condizioni ondivaghe di un adolescente. Allo stesso modo, edifici, strade, sentieri, prati e luoghi di ritrovo potrebbero appartenere a qualsiasi città.

Così come l’estate con la spensieratezza e la noia di un tempo che passa senza far notare il suo avanzamento, se non nel passaggio dalla luce al buio, sono esperienze esistenziali appartenute a tanti ragazzi di epoche e latitudini diverse. Tuttavia, questi sono elementi comuni che non spiegano il prima e, soprattutto, il dopo di Anthony, Orsu e Pierre-Marie.

Loro sostano davanti al possibile, all’imprevedibilità che non si lascia irretire in uno schema sociologico, in una dissertazione sulla condizione giovanile. La videocamera di Farellacci invita lo spettatore ad avvicinarsi ai ragazzi, e anche ad allontanarsene, perché non vi sono giudizi da esprimere, solo esistenze da intercettare per un breve attimo prima di lasciarle vagare per quei sentieri nuovamente nascoste ai nostri occhi.