La storia della Portapak è una sequenza di immagini in bianco e nero. Immagini nere come le pieghe della società conservatrice di un’America pullulante di energia grezza e deviata, quella degli abusi della polizia durante i cortei di protesta o della dilagante discriminazione nei confronti della comunità afroamericana. Bianche come lo spazio incontaminato dei primi incontri tra il video e l’arte.
Immagini in bianco e nero come le riprese dei giovani film-maker Usa, testimoni dell’esplosione del punk e della new wave nei club di New York. Un contrasto di colori, di visioni, di intenti, che ha permesso di superare tempi oscuri e esaltanti, dando così inizio a un nuovo movimento culturale, sociale, mediologico e politico. Era l’America degli anni ’70, dell’attivismo e delle tante sperimentazioni artistiche.
La nascita del primo modello di telecamera portatile, la storica Portapak, che quest’anno festeggia i suoi 50 anni (immessa a livello di massa sul mercato dalla Sony nel 1967), ha rappresentato non solo l’attuazione di un paradigma innovativo, ma un vero e proprio scavalcamento di campo, stimolando la ricerca di nuove forme espressive originali e rivoluzionarie.
A TRACOLLA
Leggero e sufficientemente maneggevole, il sistema Portapak era costituito da due unità: una telecamera (peso kg 2.7) e – a parte, da portare a tracolla, simile a una valigetta – un registratore a bobine (peso kg 5.4) con nastro da mezzo pollice.
Il teorico delle comunicazioni, video artista Paul Ryan, nel suo scritto A Genealogy of Video (1988), ribadiva che negli Usa del tempo «una generazione la cui infanzia era stata dominata dalla televisione, era ora pronta a mettere le mani su un mezzo di produzione televisivo. Una macchina leggera, economica, in grado di produrre immagini in bianco e nero con un audio modesto. Da qui, il legame tra il video e i cambiamenti sociali».
La televisione era stata a lungo «il braccio culturale centrale della società Usa, il mezzo di socializzazione di molte persone», sosteneva lo storico George Gerbner, poiché all’epoca, aveva il compito principale di estendere e mantenere determinate convenzioni sociali, piuttosto che minacciarle, alterarle o smuoverle.
Emblematico a tal proposito l’assunto di Marshall McLuhan – «il medium è il messaggio» sia per la funzione rassicurante e consolatoria della televisione, sia per l’avvento di uno strumento come la Portapak, che rappresentò, invece, una rottura, un ribaltamento semantico. Con la comparsa di questo nuovo medium, l’impressione fu quella di un taglio netto, deciso sulla linea temporale della storia. La Portapak entrava nei locali, per strada, tra la gente: trasformò ed esaltò il modo di rappresentare la realtà.
A differenza delle vecchie e ingombranti telecamere, il sistema era alimentato a batterie, autonomo, quindi era possibile riprendere fuori dagli studi televisivi, in ambienti diversi e con estrema facilità. Il primo modello immesso sul mercato fu lo storico «Video Rover» DV-2400: 20 minuti di autonomia di registrazione, costo 1250 dollari. Tutto talmente spartano che sul registratore la funzione rewind non era prevista.
NASTRO VS PELLICOLA
Capitava anche che a maneggiare il sistema fossero spesso in due: chi riprendeva e l’addetto al tape recorder (DV-2400 portapack vtr). A differenza della pellicola, il nastro poteva essere riutilizzato e, riducendo il numero di operatori al minimo, la creazione di un video aveva dei costi di produzione piuttosto bassi.
Va da sé che il sistema Portapak incoraggiò una forma audiovisiva dinamica, interattiva. Un’invenzione che modificò radicalmente il pensiero corrente dell’epoca, l’uso della tecnologia, la relazione tra i media, la musica, l’arte, creando una forte e solida identità culturale. Il suo utilizzo in tempo reale fu l’aspetto che entusiasmò una folta schiera di artisti, performer e attivisti. L’ingresso in scena di questo nuovo sistema operativo fu una spinta propulsiva a ridisegnare la storia con tinte nuove, con diverse sfumature visive e sonore.
FUORI IL PUNK
«Nella New York del 1975, in quei classici posti da amanti del punk, al Max’s Kansas City di Patti Smith, al Cbgb dei Ramones, stava nascendo una nuova cultura. C’era dell’arte nell’aria», afferma la giornalista statunitense Ashawnta Jackson, in un articolo sulla Portapak, apparso questo mese sul web, dal titolo The Revolution Was Televised, Thanks to This 25-Pound Video Rigad. Tra gli innovatori, un gruppo di studenti e registi della Manhattan Cable Television fiutò la portata del fenomeno e forse, senza rendersene conto, in quelle elettrizzanti serate, si ritrovò di fronte alla nascita del punk, con in mano un obiettivo e un registratore. Con questa tecnologia all’avanguardia i ragazzi del collettivo Metropolis Video (noto e importantissimo gruppo di film-maker di Soho) diventarono gli osservatori silenziosi di un momento epocale, documentando ogni weekend tutto ciò che accadeva al Cbgb sulla Bowery, il club fondato nel 1973 da Hilly Krystal. Si concretizzò nel tempo un diverso modo, più diretto e creativo di realizzare il rapporto tra l’esecuzione e la diffusione. Non esisteva più distanza tra l’artista e il suo pubblico, poiché l’idea era quella di uno spazio più intimo, autentico, una dimensione performativa unica, in cui il regista e il musicista creavano insieme qualcosa di radicalmente nuovo e vivo.
Nel gruppo Metropolis c’erano anche Patricia Ivers e Emily Armstrong, all’epoca due giovani e curiose studentesse, amanti della musica, ma soprattutto le uniche testimoni e protagoniste, dal 1977 al 1980, di quella rivoluzione musicale.
Con grande passione e dedizione registrarono e preservarono l’atmosfera magica del leggendario Cbgb, locale di riferimento di Ramones, Talking Heads, Television, Patti Smith, Dead Boys, Blondie ecc.
Dopo gli anni ’80, la polizia sequestrò gran parte di quel materiale. Fortunatamente, i nastri custoditi nei loro appartenenti, rimasero lì per i successivi 30 anni. Molti di quei video, durante gli anni ’80, vennero trasmessi nel loro programma televisivo Nightclubbing, mentre il resto venne poi utilizzato in alcuni festival cinematografici a fine anni ’90. Più di 300 ore di registrazioni sono state restaurate e digitalizzate dalla Biblioteca Fales dell’Università di New York e conservate negli archivi.
«GIRAVAMO OVUNQUE»
«Potevamo girare video ovunque – ricorda Pat Ivers in un’intervista del 2013 a Brondie Lanciaste – ed era un modo di sicuro più economico rispetto alla pellicola».
La prima notte al Cbgb i Metropolis filmarono proprio i Talking Heads, Blondie e gli Heartbreakers. «Fu esilarante», ricorda Steve Lawrence, membro del gruppo, nell’intervista di Ashawnta Jackson. «È stata come una liberazione dal punto di vista artistico e non ci saremmo impegnati allo stesso modo con le nostre apparecchiature pesanti», ribadisce Lawrence. Prima dell’invenzione della Portapak, unire il suono alle immagini era un sistema piuttosto complesso, invece con la tecnica di videoregistrazione tutto divenne più veloce e immediato. I Metropolis Video, e altri gruppi simili a loro, come i Tvt (Top Value Television) di San Francisco, o i Videofreex, diventarono tutti parte di un sistema in continuo divenire.
La produzione televisiva non era più soltanto nelle mani delle corporazioni, come l’American Broadcasting Company, la Columbia Broadcasting System e la National Broadcasting Company (i tre colossi della produzione tv Usa fino alla fine degli anni ’80) ma, finalmente, apparteneva alla gente. Gli studenti, gli attivisti, i musicisti e i media maker radicali si erano spinti oltre i confini prestabiliti e, grazie alla tecnologia del video portatile, avevano reso possibile questa trasformazione. Ad esempio nel giugno 1978 i Cramps realizzarono un concerto epocale al manicomio California State Mental Hospital di Napa (California). In quell’occasione si servirono del collettivo Target Video di San Francisco che registrò l’evento (poi trasformato in album) proprio con una Portapak.
E però la telecamera della Sony non ebbe solo il merito di catturare e conservare la crescita di una scena musicale underground, ma qualcosa di più grande. La rivoluzione della Portapak si disvelò, infatti, in un periodo di tumulti sociali e politici. La democratizzazione del mezzo di comunicazione valorizzò tutti coloro che si trovavano fuori dalle schiere del mainstream, che fieramente vivevano ai margini della società.
Divenne, ad esempio, la tecnologia cruciale della Raindance Foundation, un collettivo di artisti, accademici e scienziati (fondato nel 1969 da Frank Gillette, Paul Ryan, Michael Shamberg, Louis Jaffe e Marco Vassi) che sviluppò forme alternative di comunicazione culturale, spinto dal potenziale del video.
Gli outsider cominciarono a far sentire la propria voce in diretta e, progressivamente, si allontanarono dai sistemi monolitici televisivi, per creare un prodotto unico: era l’alba del giornalismo partecipativo. «C’era questa sensazione, una sorta di auto pubblicazione, un senso forte di controcultura», afferma John Hazard, un altro membro di Metropolis Video. Il video e l’attivismo politico si stavano incontrando, sollecitando l’emancipazione del pensiero. Ci si intrufolava con la Portapak tra le persone, nelle manifestazioni contro gli abusi della polizia per riprendere e testimoniare, attraverso una nuova esperienza percettiva e semantica, la realtà. Il reale, fissato in un’inquadratura con la sua colonna sonora, ebbe una grande potenza documentaria. Finalmente tutto era per tutti e restava alla portata di tutti.
Spingendosi così vicini al mondo, alla vita, non poteva non manifestarsi il bisogno di una liberazione da un modello tanto autoreferenziale, non poteva non accadere qualcosa anche nel mondo dell’arte, della performance dal vivo.
Il critico Alberto Boatto, a proposito della cosiddetta dematerializzazione dell’arte, sottolineava l’importanza, per gli artisti delle neoavanguardie, di «fissare, intersecandoli, momenti ordinari della vita nella loro scorrevolezza», ricordando che «lo spettacolo nella sua massima forzatura non ricalca più la vita, ma diventa esso stesso un’occasione, una trappola affinché accada la vita, si manifesti».
GLI HAPPENING 
Gli happening dell’artista Rauschenberg, del coreografo Merce Cunningham o del musicista John Cage, destrutturarono lo spazio tradizionale aprendolo all’unicità dell’evento, al qui e ora. Probabilmente, il consumismo dei prodotti, la mercificazione e il feticismo della parola, portarono molti artisti, tra gli anni ’50 e ’70, a dematerializzare l’oggetto artistico, avvicinandolo alla quotidianità, all’esistenza: l’arte e la vita divennero la stessa cosa. Se, però, l’oggetto artistico venne depotenziato, l’uso della Portapak gli diede nuova forza.
La video arte fece la sua prima apparizione nel ’68, quando al Moma di New York venne presentata la mostra The Machine as Seen at the End of the Mechanical Age, curata da Pontus Hulten. L’artista e musicista coreano Nam June Paik, allievo di Cage, che già nel 1963 aveva realizzato una Exposition of Music-Electronic Television, utilizzò il primitivo videoregistratore Portapak. Sempre nel 1963 lo stesso Nam June Paik rappresentò l’opera 13 distorted Tv Sets, a Wuppertal, in cui mostrava i tubi catodici degli apparecchi, modificando le immagini attraverso magneti. Prima di lui, nel 1958 il tedesco Wolf Vostell, esponente della corrente artistica Fluxus (nata nel 1961 in Germania dall’idea dell’artista lituano George Maciunas), realizzò insieme a Paik i primi lavori della serie «TV-dé-collage», in cui sei monitor venivano posizionati in una scatola di legno dietro una tela bianca.
L’estetica eversiva di questi artisti si basava sull’indeterminazione, sulla casualità e sul gioco. Il rapporto tra l’opera d’arte e la fruizione cambiò sostanzialmente, attraverso un’operazione di inclusione nella sfera artistica dell’oggetto-televisione e delle immagini liquide in movimento. Grazie all’innovativa Portapak, tale relazione divenne più fluida, malleabile, scorrevole.
L’artista, da manipolatore delle immagini televisive esistenti, cominciò a crearne delle proprie. La possibilità di registrare in presa diretta gli eventi mutò la ricerca da parte degli artisti contemporanei.
Paik ne diede prova immediata una sera del 1965, quando al Café a Go-Go del Greenwich Village a New York fece vedere quanto aveva ripreso e registrato: il traffico e la realtà di New York in occasione della visita negli States del pontefice Paolo VI. La sera stessa collegò la strumentazione al televisore del Café offrendo la visione diretta del primo video d’artista mai realizzato nella storia. Era il 4 ottobre 1965, lo stesso giorno in cui il primo esemplare di Portapak fu consegnato a New York. Se la leggenda accredita Paik come primo acquirente della nuova telecamera Sony, anche altri (Warhol, Juan Downey, Frank Gillette, Les Levine o Ira Schneider) si contendono il merito di primi manipolatori di immagini. Una cosa è certa: il 1965 è l’anno in cui nasce la video arte.
L’opera d’arte diventava simultanea, istintiva, immediata, priva di filtri, vicina al suo fruitore come non lo era mai stata. Ma, soprattutto, autentica nella sua imperfezione. Il video, da semplice strumento, si trasformò in motore propulsivo di una sperimentazione linguistica, in un’opera d’arte a sé: un medium che resisteva al potere e alla manipolazione. L’occhio dell’artista e la sua visione critica si spinsero dentro la vita, oltre lo spazio di separazione dal pubblico.
L’arte non era più elitaria, divenne una questione di libertà. Questa spinta servì, ad esempio, all’artista coreano per l’azione performativa con la violoncellista americana Charlotte Moorman, dal titolo TV Bra for a Living Sculpture (1969). In pratica una videoregistrazione sonora in cui Moorman suonava il violoncello indossando, al posto del reggiseno, due mini televisori che trasmettevano le immagini modificate dalle frequenze dei suoni prodotti dalla musicista. Fu una ricerca e interazione di linguaggi, di modelli estetici, parte di un unico macrosistema, nel quale l’artista, utilizzando diverse forme espressive, sfruttava il medium per entrare profondamente nel reale, nella violenza dei media e nella rivoluzione del costume.
La Portapak assunse il carattere di un archetipo, di una forma originaria di emancipazione, un contenitore visivo e sonoro attraverso il quale ci si poteva muovere in un mondo fluttuante, nel desiderio di spazi creativi. Uno strumento utile che spiegava le difficili logiche del potere e resisteva con tenacia al loro tentativo di asservimento. Tanto e tale fu l’impatto della Portapak sul mondo del cinema che, ad esempio, Jean-Luc Godard fu il primo ad acquistarla in Francia. Attraverso quell’oggetto si disvelava una chiave di lettura della cultura del tempo e delle sue contraddizioni, ma anche delle sue creazioni. «Effimero e riproducibile per costituzione, il video rappresenta una sfida alle istituzioni dell’arte – scrive l’artista Alessandro Bavari – poiché resiste alle catalogazioni degli storici, sfugge ai canoni museali, si sottrae ai normali criteri di valutazione del mercato. Rimane un corpo imprendibile e mutante per sua attitudine genetica».