La violenza maschile contro le donne è un tema tanto serio quanto drammaticamente attuale. L’esperienza del femminismo e quella di chi tesse e lavora nelle realtà quotidiane dei centri antiviolenza, così come negli sportelli, nelle case rifugio, nelle associazioni, sono due momenti in continuità. Proprio questa sponda costante, che mai si è inaridita, mostra la forza di strutture e realtà in rete più che attive, nonostante gli scarsi finanziamenti ricevuti, nonostante il lavoro pressoché gratuito di molte che appunto volontariamente mettono al servizio di un bene grande – come la libertà femminile delle proprie simili – tempo, competenze e incrollabile impegno.

EVITANDO vittimizzazioni secondarie o facili scorciatoie, la stessa ostinazione relazionale e politica ha un rilievo incarnato che anima iniziative capaci di approfondire argomenti e vissuti. Ad affiorare è un fenomeno non emergenziale bensì strutturale, lo si ripete spesso e pur tuttavia lo si assume ancora troppo poco. Diversi e articolati sono i livelli su cui si agisce ed è in questo solco complesso che si presentano sulla scena pubblica alcuni libri che cercano, e trovano, «le parole per dirlo»; così Francesca Brezzi introduce il volume di Maria Concetta Tringali, Femminicidio e violenza di genere. Appunti per donne che vogliono raccontare (edizioni Seb 27, pp. 146, euro 16). Avvocata, il suo impegno presso il Centro antiviolenza catanese Galatea comincia cinque anni fa. L’intreccio tra l’esperienza professionale di Tringali e il lavoro che intraprende nel Centro, la porta a una riflessione necessaria sulle tante storie che affollano la vita delle sue simili. È attraverso lo scambio con l’esperienza delle altre, di quelle stesse donne che ascolta e conosce, che mette ordine e apre ulteriori interrogativi. Il libro ruota su alcune parabole esemplari; pure nella loro singolarità, le storie riportate riguardano il modo in cui la violenza maschile possa fare il nido in una relazione all’apparenza governabile.

È STATO COSÌ PER CLARA, «una come tante», si definisce lei stessa quando arriva da Galatea, con parole che somigliano a un feroce apprendistato verso la coscienza del bene, quello che si deve anzitutto a se stesse. In questa comunanza emerge il dato – guadagno anch’esso del femminismo – per cui non si può intraprendere la strada della fuoriuscita dalla violenza in solitudine.
Carla può raccontarlo, Giordana invece no. Aveva 20 anni quando, nell’ottobre del 2015 in un piccolo paesino alle pendici dell’Etna, è stata uccisa dal ragazzo che aveva lasciato e da cui 4 anni prima aveva avuto una figlia. Vittima di femminicidio, aveva denunciato le persecuzioni e si era rifatta una vita. Dopo un anno e mezzo di apparente silenzio, lui l’ha uccisa con 48 coltellate, lasciandola nel bordo di una stradina a dissanguarsi per una notte intera. Lo hanno trovato mentre fuggiva alla volta della Svizzera, valigia pronta di tutto punto con dentro 10 curriculum. Questo, come altri casi, potrebbe essere la specifica di una vicenda isolata, eppure ogni volta che un uomo uccide una donna lo fa per mettere fine a una libertà femminile inaccettabile e su cui pretende di avere proprietà. Non è un raptus, neppure un guasto d’amore.

SI È DI FRONTE a un «sistema – prosegue Tringali – nella prassi insufficiente». Carenze, una giustizia dai tempi lunghi di attesa ma soprattutto una «disomogeneità degli interventi» là dove sarebbe indispensabile adottare una più avveduta prospettiva che non individui una emergenza di «codici rossi» bensì una strutturalità capace di integrazioni e sponde. Utile e importante è il capitolo che l’autrice dedica alle donne migranti giacché nel loro caso, se ancora più cruciale è l’intervento del centro antiviolenza, maggiore è lo sfilacciamento di interventi.

STARE NEI PRESSI dell’altra, diventa allora fondamentale; così sapere, condividere, interrogarsi come fa Carla Baroncelli nel suo recente Ombre di un processo per femminicidio. Dalla parte di Giulia (iacobellieditore, pp. 253, euro 14.90). Con una prefazione di Graziella Priulla e un contributo di Maria Serena Sapegno, il volume nasce da una richiesta, quella che Barbara Domenichini e Luana Vacchi, coordinatrici della Casa delle donne di Ravenna insieme a Lia Randi dell’Udi di Ravenna fanno all’autrice: seguire il processo contro Matteo Cagnoni per il femminicidio di Giulia Ballestri, sua moglie. Per ventitrè anni cronista nella redazione Rai del tg2, Baroncelli dal 10 ottobre di due anni fa ha seguito ogni udienza, in totale trenta. Ne risultano ritratti incisivi, di tenore politico ma soprattutto antropologico tale da poter essere consigliato in lettura nelle scuole. Attraverso alcune parole-chiave, i punti emersi e segnalati sono interessanti. A cominciare dalla buona e rispettabile «famiglia» composta da questo noto dermatologo che per manipolare la propria moglie, madre dei suoi tre figli (il più piccolo aveva allora tre anni), le prescriveva psicofarmaci in quanto «depressa», la vessava in ogni modo possibile e infine decideva di ucciderla con rara efferatezza quando lei pensa di separarsi.
Chiaro quanto il lavoro delle donne, a vario titolo, non sia per niente silenzioso; è invece pratica militante, presente nel territorio nazionale da decenni, significa presidi costanti, tenaci. Questa la vera «sicurezza» che si dovrebbe sollecitare e sostenere, tornando al suo senso etimologico che niente ha a che vedere con la tutela, bensì con luoghi simbolici «senza preoccupazione», cominciando dalle braccia e gli occhi di altre donne, luoghi in cui sentirsi ascoltate, accolte, credute. Preferibilmente sostenute. Da vive.