In piedi al sole, Maty ha sotto il braccio le nuove carte del progetto, la mascherina azzurra non contiene il suo sorriso. Alba le prende il gomito «Livorno è sempre stata aperta, non aveva neanche il ghetto, ma ora c’è chi vorrebbe fare il razzista anche qui!». Le due riprendono a camminare attraversando lentamente la piazza, proprio alle spalle di Garibaldi, che dal suo basamento guarda verso il porto industriale.

Dietro la piazza ci sono le strade strette e affollate dello storico quartiere popolare Garibaldi dove si trova La Riuso, uno spazio che dal 2017 distribuisce ad offerta libera vestiti, libri, giochi e altri oggetti usati, oltre a mettere in campo vari progetti rivolti agli abitanti della zona. È qui, nella piccola chiostra che si apre al centro del vecchio palazzo, tra le piante e le pile di libri, che si sono date appuntamento Alba, ultraottantenne livornese, e Maty ventiseienne originaria del Senegal. Un primo incontro per avviare un nuovo capitolo del progetto «Riconoscersi solidali» che Mezclar22, l’associazione che gestisce i progetti de La Riuso, ha avviato insieme al Centro Servizi Donne Immigrate con il finanziamento della Chiesa Valdese. Al centro di questo progetto c’è l’incontro tra giovani immigrati e anziani del quartiere che sono interessati a partecipare.

Maty è in Italia da 5 anni «ho studiato, avrei voluto iscrivermi all’università, ma poi ho avuto il primo figlio, e non ho potuto continuare». Ha ancora delle difficoltà con l’italiano, e rapportarsi con persone anziane non è semplice, ma ha scelto di intraprendere il progetto per migliorare la lingua e avere un piccolo reddito.

«Il progetto è iniziato appena prima della pandemia» racconta Filippo, tra i principali animatori de La Riuso e tutor dei volontari «quando a marzo c’è stato il lockdown abbiamo interrotto i corsi d’italiano e li abbiamo potuti concludere solo in estate».

Nel mese di settembre, dopo la formazione, finalmente «Riconoscersi solidali» ha ingranato: i giovani hanno iniziato a recarsi a casa di alcune persone anziane per dare una mano e far due chiacchiere, altri uscivano insieme per andare a comprare da mangiare o per una passeggiata, qualcuno aveva bisogno della consegna della spesa, un’occasione per conoscersi. Il progetto «mira allo sviluppo dell’inclusione socio-lavorativa dei migranti e richiedenti asilo e della solidarietà reciproca con gli anziani del quartiere Garibaldi» spiega Veruska, presidentessa dell’associazione. Purtroppo dopo ottobre la situazione è mutata, rispetto alla scorsa primavera il covid-19 ha travolto la città, il rischio per la salute e le restrizioni a livello regionale hanno costretto a rivedere radicalmente il progetto. «In questa situazione difficile molte attività sono impraticabili – continua Veruska – e tante persone hanno rinunciato a partecipare per paura dei contagi». Alcuni ritirano la spesa dalla finestra, calando sulla strada un cestino o una busta.

Proprio nel mese di novembre, pure durante la «zona rossa», con le dovute precauzioni, le attività di consegna di spesa e medicinali sono continuate e il progetto è stato per molti una vera risorsa. Ha permesso di spezzare l’isolamento a chi era costretto in un impossibile confinamento nelle camerate di un centro di accoglienza o nella solitudine di una vecchia casa.

A settembre Seydou, senegalese di ventisette anni, aveva iniziato a incontrarsi con Grazia, che abita a due passi da La Riuso, facevano la spesa insieme in uno degli alimentari del quartiere. Poi, con la ripresa dei contagi e le prime restrizioni, Grazia ha smesso di uscire di casa. Con la spesa ora le dà una mano sua figlia, che è barista e in questo periodo non può lavorare. Seydou la passa a salutare ogni tanto sotto la sua finestra che si affaccia su Piazza dei Mille, scambiano qualche battuta, cercando di mantenere il rapporto che si era creato.

Già prima del progetto Seydou frequentava La Riuso, ha messo su un piccolo laboratorio di sartoria nella chiostra, ci sono un paio di macchine da cucire e un mucchio di scampoli sul tavolino sotto il portico. «Ho studiato otto anni, ma qui non riesco a trovare lavoro come sarto» tira fuori da un cassetto un rocchetto di cotone giallo «potrei fare piccole riparazioni a casa, ma questo materiale costa, e con quello che ti danno non riuscirei neanche a comprarlo. Questo non è lavoro». Racconta che è per sfuggire alla disoccupazione che ha lasciato la sua casa «è così per tutti, e tanti muoiono in mare». Ormai è a Livorno da tre anni, lavora per una cooperativa di servizi, fa poche ore di pulizie; riesce ad integrare il reddito con le attività a La Riuso, ma vorrebbe provare a spostarsi per cercare lavoro.

Per stamani Lansseny ha finito le consegne, nella chiostra sono arrivati il caffè e la schiacciata calda. Spiega che tre volte la settimana svolge le consegne di generi alimentari e medicinali, è molto attivo, ma ha cominciato da poco. Ha già stretto rapporto con Piero, settantaquattrenne, livornese verace, costretto a casa dai problemi di salute. Sale sempre da lui per la spesa, ora purtroppo non è possibile trattenersi molto a parlare, e si incontrano sul pianerottolo, a distanza, con le mascherine. Ma anche questo è importante. Piero ogni tanto gli presta qualche libro, romanzi, ma anche un volume per la scuola guida, un vocabolario. Qui Lannseny sta continuando a studiare, quest’anno avrebbe voluto iscriversi ai corsi serali ma preferisce aspettare che finisca la fase della didattica a distanza «prenderei il diploma, ma non imparerei niente». Originario del nord del Mali, Lansseny ha ventidue anni, di cui tre vissuti a Livorno, dove intende restare. Per sfuggire alle distruzioni della guerra e all’arruolamento forzato nelle truppe islamiste ha deciso di partire, è rimasto bloccato in Libia «solo un anno, mi è andata bene» e sorride guardandoti in faccia prima di riprendere a raccontare. Da Lampedusa è arrivato direttamente qui, a Livorno.

Era notte quando è arrivato al Centro di Accoglienza Straordinaria che si trovava tra il quartiere Garibaldi e la stazione: «appena sono sceso dal pullman ho trovato Giulia, che mi ha detto – Domattina vieni a scuola!» Le risate sono coperte dalla voce di Giulia che lo prende in giro «Parli troppo veloce Lansseny! Vuoi dire troppe cose e ti mangi le parole, i vecchi poi non ti capiscono!»
Tutti i pomeriggi nel fondo de La Riuso si fa spazio al doposcuola, partecipano bambine e bambini del quartiere, molti da famiglie di origine straniera. All’inizio Giulia li andava a cercare direttamente davanti alle scuole, nei negozi del quartiere, parlando con insegnanti e genitori, dopo più di due anni l’attività è cresciuta, così come i piccoli partecipanti. Si sono uniti molti altri volontari al doposcuola, Chiara, Martina, Ahmed, e ogni bambino è seguito a livello individuale, si è creata una vera e propria rete.

La Riuso è innanzitutto un luogo di incontro, di aggregazione, precisa Filippo «sono proprio quelle relazioni che ci permettono di essere un punto di riferimento anche in questa difficile situazione». Ma in questi anni lo spazio è stato anche un punto di osservazione «un presidio nel cuore del quartiere», da qui nasce l’idea di «rompere le barriere generazionali e di origine che nel quartiere sono evidenti, organizzando attività rivolte a tutti gli abitanti». Ma per capire la storia di «Riconoscersi solidali» bisogna tornare indietro, ai provvedimenti del primo governo Conte siglati dall’allora Ministro dell’Interno Salvini nel 2018.

«Tutto è cominciato lì» tiene a ricordare Filippo, perché – dice – la chiusura dei percorsi Sprar il Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati e l’eliminazione di fatto della protezione umanitaria portarono non solo alla chiusura nel 2019 di nove dei dodici Cas che erano attivi a Livorno, ma anche alla fine di numerosi progetti, attività, relazioni, e soprattutto alla chiusura di ogni prospettiva per le persone che vivevano in quei centri.

Prima di rientrare per pranzo al Centro di Prima Accoglienza dove vive, nel quartiere Venezia, Lansseny torna a La Riuso, mostra il suo smartphone a Giulia «guarda – dice – hanno accettato la mia richiesta di asilo!».