Nelle ultime frenetiche ore della scelta della sua vice, Joe Biden s’è visto recapitare un appello limpido e netto, sottoscritto da un centinaio di firme conosciute: artisti, giornalisti, imprenditori, sportivi, star. Tutte celebrità African American. Tutti uomini. In una frase è condensato il messaggio: «Se non riuscirai a selezionare una donna nera nel 2020 significa che perderai le elezioni». Chiaro, no? Il voto nero non è né scontato né garantito, caro Joe, dicono le personalità Black che gli hanno indirizzato l’appello. A novembre voteremo per te, ma soprattutto per la candidata che t’affiancherà, se sarà una di noi.

Non s’è ben capito perché ci siano state l’urgenza e la necessità di una simile iniziativa, dal momento che da settimane ormai si dà quasi per scontato che la scelta di Biden è concentrata su un gruppo di donne, in maggioranza africano americane, ed è tra queste che sembrava focalizzarsi l’attenzione degli strateghi del candidato democratico. Evidentemente, s’è dato peso alla notizia di quello che poteva sembrava un sorpasso inaspettato nell’ultimo miglio da parte della governatrice del Michigan, Gretchen Whitmer.

Il voto nero, dunque. Il voto delle donne. Nella scelta del numero due c’è anche una scelta strategica dei due settori elettorali. Decisivi per l’elezione del candidato democratico. Ed è indicativo che il terreno delle questioni di genere e di razza sia anche quello prescelto da Trump per sferrare la controffensiva nei confronti di Biden, attaccando il rivale con l’idea di rinchiuderlo nel recinto femminile/razziale e nel tentativo di ostracizzarlo così nei confronti dell’elettorato bianco, specie quello della classe media, gli arrabbiati della crisi, i rancorosi del negazionismo Covid.

«Sarei propenso a prendere una strada diversa rispetto alla sua», ha detto Trump in un’intervista radiofonica, commentando la scelta di una candidata donna e nera per il posto di numero due. Biden «s’è legato da solo le mani con un certo gruppo di persone», sicché ci sarà chi dirà che «gli uomini si sentono insultati da tutto questo». Potrebbero essere catalogate come le solite, insensate battute dell’ormai sterminato repertorio presidenziale. In realtà, sono il mantra con cui Trump cercherà di incorniciare l’avversario dentro un perimetro non solo limitato, ma dentro il quale Biden si muove con difficoltà, mentre più a suo agio si troverebbe nell’area dell’elettorato bianco, che l’ex-vicepresidente presidiava come vice di Obama.

In altri tempi, un candidato con la storia di Biden non avrebbe avuto difficoltà ad aggregare insieme, sotto la tenda democratica, i vari segmenti elettorali – le constituencies – che storicamente si riconoscono nel partito dell’asino: lavoratori, sindacati, minoranze, donne, ceto medio. Contro il partito dei benestanti. Del privilegio. Dei conservatori. Dei bianchi. Oggi altre linee attraversano il campo elettorale, spesso legate a questioni d’identità – di razza, di genere, di appartenenza religiosa o etnica, e del mix di queste – e queste linee s’intersecano con le vecchie categorie del politico e del sociale che certo non sono svanite. Specie in un quadro economico, domestico e globale, che da tempo ha smesso di promettere – se mai è stato vero – un futuro migliore, un’America più prospera.

In un contesto così, l’età di Biden conta di più della sua innegabile esperienza politica, nell’evidente impaccio che mostra nell’affrontare la complessità della situazione attuale, avendo di fronte un avversario che ha le idee chiare su come e verso dove muoversi, e che per questo, specie nei duelli televisivi prima del voto, potrebbe avvantaggiarsene.

A questo punto della corsa, con i sondaggi anche a favore, è molto importante che, una volta scelta la “running mate”, Biden proceda a valorizzare la sua piattaforma, mettendo bene in chiaro che una scelta inclusiva, come quella di una vice nera, non esclude i bianchi, come insinua Trump, ma tende a riunire quello che la crisi e la destra hanno tentato, anche con successo, di separare.

In un libro appena uscito, «The Land of the Riches», Jim Tankersley, firma di punta del New York Times fa una severa autocritica, a nome della sua categoria, per l’attenzione dedicata, nella campagna del 2016, alle condizioni critiche dei bianchi impoveriti del Midwest trascurando quelle dei loro omologhi neri. I primi trovarono in Trump il loro campione, i secondi, perso Obama, si sentirono soli, e in tanti disertarono le urne. Oggi, secondo Tankersley, la battaglia contro la persistente discriminazione, sulla base della razza e del genere, può contribuire a creare le condizioni per far ripartire la mobilità sociale verso l’alto, per tutti, e addirittura aprire le porte a una nuova epoca d’oro per la middle class. Un libro da consigliare a Biden.