Da piccola, Claudia Losi passeggiava per la campagna insieme a sua madre. La loro, però, non era una semplice camminata fra arbusti, rocce e stagni incontrati sui sentieri, ma qualcosa di più: una specie di iniziazione alla natura, un «romanzo di formazione» che veniva inciso attraverso i propri passi.
Negli anni, crescendo, l’artista ha continuato quelle sue sacrali gite, a volte da sola, altre in compagnia di persone con cui si trovava in stato di «affinità elettiva». Della sua attitudine da bambina, ha mantenuto intatto lo stupore e, soprattutto, il desiderio di creare sintonie sconosciute fra le cose. Così, nelle sale della Collezione Maramotti di Reggio Emilia, Losi ha lasciato degli indizi di una delle sue cronache di viaggio, una serie di segni di una particolarissima peregrinazione che l’ha portata ad attraversare – sfidando venti forti, difficili attracchi, un meteo avverso – saint Kilda, l’arcipelago composto dalle isole più occidentali delle Ebridi Esterne (Scozia). Un luogo remoto dalle alte scogliere, inselvatichito, dove nidificano centinaia di migliaia di uccelli, ma che gli abitanti umani hanno abbandonato fin dagli anni Trenta del secolo scorso, sconfitti dalla sua inospitalità (oggi vi si trovano solo avamposti di scienziati e militari). Claudia Losi ha scelto quell’impervio territorio per la sua spedizione artistica, aprendo varchi reali e anche solo desiderati.

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La mostra How do I imagine being there? (in corso fino al 16 ottobre) nasce come progetto di libro e poi sparpaglia nelle sale una serie di oggetti «archeo-immaginari», tracce animali e «fossili» di percorsi possibili. Sono i suoi indicatori mnemonici, una specie di cartografia soggettiva che si sovrappone al paesaggio vissuto. La mappatura poetica di Losi è stata raccontata e presentata al pubblico in una chiacchierata tra l’artista e il geografo-antropologo Matteo Meschiari. Il lavoro di questa performer che coinvolge tutta se stessa nell’arte – sia quando «rammenda licheni», cucendo e ricamando, sia quando proietta linee immaginarie su territori, compresi quelli considerati invalicabili – è un prototelaio che riveste pietre, distese erbose, specchi d’acqua, pendii montani. Meschiari ha paragonato l’attività di «ricreazione» del presente di Losi con i viaggi zoomorfi degli uomini del paleolitico, quando con i loro disegni conducevano oltre il conosciuto, forzando i confini dell’alterità.

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La personale dell’artista piacentina è, infatti, popolata da numerosi animali. Sono ospiti discretissimi, spesso quasi invisibili, che vanno scoperti in una specie di caccia al tesoro. «Sono i testimoni che osservano ciò che accade», avverte l’autrice del progetto, sorridendo e toccandosi i suoi capelli corti, da folletto dei boschi. «A volte, quando sono perplessa, forniscono indicazioni sulla direzione da prendere». Abitano gli anfratti della mostra e si riparano dalle intemperie anche tra le pagine del libro. La scelta di quella propaggine ultima dell’Europa, in mezzo all’oceano Atlantico settentrionale, è stata dettata dalla scarsità di presenza umana e dalla verginità ambientale dove l’artista ha potuto immagazzinare esperienze di prima mano, calandosi fra suoni, fragori e silenzi. «Mi interessa capire come funziona l’interazione tra spazio e immaginario – spiega Losi -. Quello che pensa l’homo sapiens prima di andare in un luogo e poi il confronto con la sua esperienza fisica; infine, la relazione con ciò che ha vissuto una volta tornato nel suo quotidiano. È tutto questo la mente paesaggistica. Per Calvino, il paesaggio era addirittura un ’ragionamento’».

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Dato che il nostro cervello è abituato a processare informazioni spaziali perché necessarie alla sopravvivenza, «l’orientamento, lo scavare nella memoria, la costruzione di una toponomastica risultano essere atti antichissimi, competenze modellate sugli ambienti in cui i nostri antenati si trovavano a vivere», afferma Matteo Meschiari, rinforzando l’idea dell’artista che ogni territorio sia un «altrove», decifrabile solo in quanto modello cognitivo. E l’immaginazione non può che assumere un ruolo cruciale. «Io produco cartografie camminando, le vivo col mio stesso corpo, disegno così le mappe – continua Claudia Losi – Collego ritmi diversi sia con il mio filare che con i viaggi a piedi, fuori dai sentieri. La metafora è quella del respiro».

Proiettata sul limite, sul cul de sac geografico dei luoghi, l’autrice narra le sue esplorazioni attraverso degli oggetti residui, manufatti che mescolano artificio e verità con associazioni spesso oniriche. Ci sono le pietre, le fotografie naturalistiche, un grande ricamo del Polo Nord ripreso dalla rappresentazione che ne fece nel Seicento Athanasius Kircher, utensili deformati come fossero scoperte archeologiche, reperti che hanno resistito all’usura dei secoli. E naturalmente ci sono gli animali, un’alterità che, come fosse un corridoio biologico, popola anche i giardini della Collezione Maramotti.

D’altronde Claudia Losi è la stessa artista che ha realizzato in tessuto di lana una utopica balena di dimensioni reali, ventritré metri di lunghezza per cinque d’altezza. Presenza mitica, ancestrale, per lei doveva volare sopra gli alberi degli Appennini. La sua suggestione poetica arrivava direttamente dalla paleontologia: molte ossa di questo cetaceo sono state rinvenute in quegli ambienti oggi senza più acqua. E si pensa che milioni di anni fa, le balene nuotassero dove adesso si librano i rapaci. Ancora una volta, un superamento di ogni confine.