La vicenda dei pastori sardi è una «questione di filiera, perché la qualità del latte mediamente è buona, gli animali sono allevati al pascolo e generalmente tenuti bene, da pastori eccezionali e appassionati» spiega all’ExtraTerrestre Piero Sardo. Secondo il presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità, quindi, «il problema non è la materia prima, ma il processo che partendo dal latte arriva alla trasformazione e da lì al mercato».

Che cosa insegna la vertenza sarda?

«La vicenda non è nuova, perché il tema del prezzo del latte di pecora, nella regione con la maggior concentrazione di pecore d’Europa, ogni tanto esplode. L’andamento dei prezzi della materia prima è legato a quello del formaggio, e quest’anno il Pecorino Romano (il 60% del latte di pecora sardo diventa Pecorino Romano, ndr) ha avuto una sovrapproduzione esorbitante: dopo aver concordato 280mila quintali, ne hanno fatti 340mila, 60 mila in più. Questo ha portato il prezzo all’ingrosso a scendere fino a 3-4 euro al chilo, e all’impossibilità di mantenere il valore del latte a 85 centesimi di euro. Le colpe, però, vanno equamente divise: ne hanno anche i pastori, che quando prendevano un euro e dieci al litro hanno investito per far crescere i greggi, aumentando la produzione di latte. C’è un problema, a mio avviso, anche con la seconda Dop, quella del Pecorino Sardo: s’è iniziato a produrre usando latte pastorizzato, e inoculando con fermenti stranieri, proponendo stagionature «tirate» (forzate, in frigorifero), facendo scendere la qualità del formaggio. Questo ha sfiduciato il consumatore, che già vive una disaffezione verso i formaggi come il Pecorino (anche) Romano, che è in un certo senso un formaggio antimoderno, duro, salato».

Sono possibili risposte «di filiera»?

Il governo con il ritiro del Pecorino in eccesso forse pacificherà gli animi, ma non risolverà il problema. La questione è complessa, le risposte non possono essere semplici. Noi di Slow Food ne abbiamo immaginata un’altra, forse l’unico intervento che possiamo fare: siccome i nostri due Presìdi – il Pecorino di Osino, nel sassarese, e il Fiore Sardo dei pastori, nel nuorese – funzionano, abbiamo immaginato la creazione di 10 nuovi Presìdi, ricollocando alla base della filiera la produzione del Pecorino Romano. Sappiamo che i pastori sono 12mila, non è pensabile che tutti trasformino il proprio latte, ma un intervento del genere, informando i consumatori, rafforzerà anche economicamente i produttori di latte. Dirà che ci può essere un modo diverso di produrre latte o vendere formaggio».

Una nuova filiera solidale, ma quella di massa legata alla grande distribuzione?

Abbiamo visto gli annunci di Coop, che pagherà un euro al litro il latte di pecora, e di Natura Sì, che già lo fa. È un passo avanti, e vedremo in futuro quanto sarà facile controllare le catene del valore. Quello che è certo, però, è che se io sono un industriale che trasforma latte di pecora, e non una cooperativa, che ha interesse a ritirare il prodotto dei soci, posso scegliere di fronte a una sovrapproduzione di non ritirare più il latte. La GDO generalmente non vuole niente di meglio che prezzi stracciati. Se dobbiamo chiamare in causa qualcuno, però, io guarderei anche alle cooperative che in sardegna producono il Pecorino Romano: è stato corretto e lungimirante concentrare la produzione in una trentina di coop, invece di continuare la tradizione pastorale della trasformazione del latte? Qui non c’è un problema, come si legge su Facebook, di latte importato, perché il Pecorino Romano e quello Sardo sono DOP, quindi saremmo di fronte a un reato penale. Per quanto riguarda il latte ovino, però, siamo assolutamente autosufficienti: in Sardegna ci sono 3 milioni di pecore, in Sicilia 900mila, nel Lazio 700mila. Poi si va giù: da noi in Piemonte 130mila pecore, e il latte viene pagato 1,40 euro al litro (e se serve latte s’importa dalla Francia, che è più semplice).

Allargando lo sguardo dal latte di pecora a quello vaccino, in Italia c’è un problema legato alla produzione di formaggi con latte non italiano?

Togliere le quote latte ha spalancato le porte all’importazione. Si compra soprattutto dove conviene di più, quindi in Est Europa o in Francia, tanto poi quel latte viene pastorizzato. Credo però che una risposta a questo problema debba essere portato avanti con altri argomenti: il consumo di latte fresco è in calo drammatico, compensato in parte dallo yogurt. Per quanto riguarda l’importazione di latte vaccino, è usato per la produzione di formaggi generici e industriali: qui emerge un problema, legato all’etichetta. Non c’è alcun obbligo a scrivere che il latte trasformato è italiano, e questa è una sofferenza. L’argomento è in discussione, ma nessuno ha interesse a spingere, tranne i piccoli che però non pesano. Gli industriali non hanno di certo interesse. Del resto, il primo Paese produttore di formaggi in Europa è la Germania, con 2,2 milioni di quintali: sai dirmi il nome di un formaggio tedesco? Non preoccuparti: nemmeno io ne ho idea. Perché producono semi-lavorati per l’industria di trasformazione, e burro. In Italia abbiamo una vocazione diversa, simile alla Francia, quella delle specialità regionali, che esiste solo a partire da latte locale. Il confine dovrebbe essere netto, visibile: uno stracchino di supermercato non è la stessa cosa dello Stracchino all’Antica delle Valli orobiche, presìdio Slow Food».

Da qui la battaglia di Slow Food per difendere i formaggi a latte crudo?

Sì, e oggi allarghiamo la partita anche ai fermenti. Ci siamo resi conto che il latte non pastorizzato è fondamentale, ma che c’è una nuova deriva verso l’uso di fermenti industriali, prodotti da poche multinazionali in tutto il mondo. L’acquisto di queste bustine semplifica la vita, ma rischia di modificare il quadro aromatico del formaggio. In più, avviene tutto sotto silenzio: si tratta di un coadiuvante tecnologico, e non sei obbligato ad indicarlo in etichetta. Da qui l’idea di lanciare un allarme, che a partire dal prossimo appuntamento con «Cheese» (dal 20 al 23 settembre 2019, a Bra), ci porterà ad indicare chi non usa fermenti industriali o produce in autonomia del siero-innesto, portando così nel formaggio la propria flora batterica.

Sono i «Formaggi naturali», a cui Slow Food Editore ha dedicato un libro?

Abbiamo fatto una selezione tra i produttori che resistono, e che il consumatore deve aiutare a resistere. Ed è un segnalare che ci stiamo muovendo in una direzione. L’unica speranza è che il consumatore abbia chiara la distinzione tra chi usa latte crudo e fermenti «autoctoni» e chi invece ricorre a quelli industriali. Le storie che abbiamo raccontanto, una cinquantina, sono il simbolo di una linea possibile da percorrere. Perché quella del pastore che fa formaggio a latte crudo e poi usa la bustina è una contraddizione in termini. Ci siamo ispirati al mondo del «vino naturale», una battaglia vinta da chi usa solo lieviti indigeni.