La querelle, in corso dall’inizio dell’anno, sulla riduzione di denaro facile nel sistema finanziario globale pare risolversi in una scelta di continuità con le politiche monetarie espansive. Magari con una riduzione d’intensità, queste politiche sostanzialmente proseguiranno negli Usa, in Giappone, come in Europa. Troppo debole la ripresa, dove esiste, per essere considerata stabile e soprattutto capace di marciare con i meccanismi tradizionali della crescita economica. La futura presidente Fed, Janet Jellen, ha, infatti, recentemente dichiarato di considerare «un obbligo fare tutto quello che possiamo per promuovere una ripresa molto robusta». La ricerca di una via d’uscita, dunque, è sempre in corso. Oggi si sta affacciando la prospettiva di una re-industrializzazione per poter tornare a crescere. Capofila di tale tendenza sarebbero gli Stati Uniti dove l’amministrazione Obama ha iniziato ad attivare politiche favorevoli al potenziamento, e in alcuni casi al rimpatrio, di attività produttive. Su questo giornale Pierfranco Pellizzetti ha parlato di una sorta di inversione di tendenza rispetto al processo di decentramento produttivo transnazionale iniziato negli anni Sessanta che condusse alla desertificazione del lavoro e ha dichiarato come «negli Stati Uniti il diluvio universale sia finito e l’arcobaleno riappaia all’orizzonte». Su “Repubblica” Federico Rampini, più cauto, sottolinea che il fenomeno della re-industrializzazione negli Usa sia tangibile e come, anche grazie all’impennata dell’indice manufatturiero cinese, al miracolo industriale coreano, alle politiche d’investimento giapponesi, «la ripresa cammini sulle gambe dell’economia reale». Questa chiave di lettura però rischia di sottovalutare il profilo di tali nazioni e le politiche monetarie che stanno a monte. I paesi citati, fatto salvo gli Usa, hanno economie orientate alle esportazioni, ma il saldo commerciale internazionale è a somma zero, non tutte le nazioni possono realizzare un surplus contemporaneamente, non esiste un meccanismo che garantisca un equilibrio continuo, le politiche nazionali sono spesso reciprocamente incompatibili. Il caso degli Usa è in parte differente. Per molti versi incarna la parabola produttiva di tanti paesi occidentali, ma costituisce ancora la principale potenza economica globale, una potenza che ha in corso una ripresa al di sotto delle sue esigenze. A partire dalla crisi ha oliato il sistema inondandolo di moneta con il risultato di ridurre il costo del credito e indebolire il dollaro, rendendo i prodotti più competitivi e facendo arrivare del denaro anche all’economia reale. La Fed ha immesso 3.400 miliardi di dollari, ma il Bureau of Labor Statistic ha certificato che dal 2009, considerando la riduzione in termini assoluti degli occupati anche grazie ai pensionamenti, il saldo complessivo dei nuovi assunti è positivo solo per 70.000 unità. La stessa disoccupazione è ancora al 7.2% e le diseguaglianze stanno crescendo. C’è una drammatica sproporzione tra mole di moneta impiegata e risultati ottenuti nell’economia reale. I processi di re-industrializzazione, dunque, non richiamano un capitalismo buono, essi sono al prezzo di un deciso sbilanciamento sul versante finanziario e, soprattutto, all’insegna di un meccanismo ipercompetitivo che induce a una gara al ribasso senza fine su salari e diritti, non solo su qualità e conoscenza come troppo spesso si sostiene. Anziché ambire a diventare dei campioni delle esportazioni sarebbe meglio pensare a inediti meccanismi produttivi fuori dai dettami mercantilisti, all’insegna delle riconversioni ambientali e di una giusta redistribuzione del lavoro esistente.