Una vita difficile nella banlieue di Roubaix, i piccoli furti e poi il salto verso la criminalità organizzata, il carcere e, infine, la scoperta della «fede», nella sua versione dell’ islam integralista. Il profilo di Mehdi Nemmouche, il giovane francese di 29 anni arrestato per l’ attentato al Museo ebraico di Bruxelles, evoca immediatamente l’ orizzonte a un tempo disperato e terribile della «jihad fai da te», di una generazione di figli e nipoti degli immigrati dai paesi arabi che, alla ricerca di una nuova identità e per fuggire alla marginalità cui sembrano destinati, si indirizzano verso una «guerra santa» sanguinaria che dovrebbe condurli al riscatto, sia sociale che personale. Per molti versi, l’ altra terribile faccia del dilagare in tutta Europa dello spettro del razzismo e del ritorno dell’ estrema destra.

Perché, di un fenomeno diffuso in tutto il continente, si tratta. Ieri Le Monde ha parlato di Bruxelles, come della «capitale dello jihadismo europeo», spiegando che, proporzionalmente, il piccolo Belgio sta ad esempio fornendo almeno duecento combattenti alla causa del fondamentalismo islamico che combatte in Siria contro il regime di Assad – i miliziani accorsi dall’ Europa sarebbero oltre 2mila secondo le fonti dell’ intelligence europea, anche se per il think tank statunitense Washington Institute for Near East Policy, il numero arriverebbe addirittura a più di 4mila. In totale, più di 10mila i combattenti stranieri che opererebbero ora a Damasco, secondo le stime del Centro internazionale di studio sull’ estremismo di Londra. Tra loro diverse centinaia di francesi, più o meno altrettanti britannici, oltre a numerosi tedeschi, irlandesi, danesi e kosovari. Si tratta – spesso – di giovani che possiedono la doppia nazionalità o che provengono da famiglie dell’ immigrazione maghrebina o turca e che, nell’avvicinarsi a questa «religione combattente», esprimono tutto il malessere per la mancata integrazione delle loro comunità. Poi, notano ancora gli esperti dell’ antiterrorismo, ci sono i convertiti e coloro che identificano nell’ islamismo armato una sorta di nuovo terzomondismo. Come ha spiegato recentemente il primo ministro francese Valls, negli ultimi mesi il fenomeno è cresciuto ulteriormente e si è diffuso anche ad altre scenari di guerra: i soldati di Parigi hanno catturato anche un loro concittadino che combatteva a fianco delle milizie islamiste non lontano da Bamako, in Mali. «La cosa più inquietante – sottolinea Erwin Bakker, studioso del nuovo terrorismo all’università olandese di Leyde – è che questi giovani si radicalizzano in qualche settimana e che la loro frustrazione, al momento del ritorno in Europa, potrebbe spingerli ulteriormente verso la violenza».

Il problema non è tanto quello della partecipazione di giovani musulmani radicalizzati nelle periferie urbane e nelle carceri ai conflitti armati del Medioriente – prima era stato il caso dell’ Afghanistan e dell’ Iraq – quanto la prospettiva che quella guerra la riportino poi a casa, una volta rientrati nei paesi d’ origine. La Francia è, da questo punto di vista, il paese che ha già visto emergere questo fenomeno nel modo più evidente. Dopo la scoperta della matrice islamista dell’ attentato antisemita di Bruxelles, in molti hanno associato il profilo del giovane malvivente di Roubaix a quello di Mohammed Merah, 23 anni, origine algerina, cresciuto nella periferia di Tolosa e arrivato anch’egli all’ islam radicale per la via del carcere e l’ incontro con quelli che gli studiosi definiscono come «gli imam delle celle», i predicatori salafiti – la stessa dottrina cui si rifaceva anche Bin Laden – che nella primavera del 2012 portò il terrore per le strade di Tolosa e Montauban uccidendo tre militari e quattro persone davanti ad una scuola ebraica, tra cui tre bambini, prima di essere a sua volta ucciso dalle forze dell’ ordine. In Francia, il caso di Merah ha scosso l’opinione pubblica, anche perché, come ha sottolineato il giudice Marc Trévidic, che ha seguito molti processi agli jihadisti francesi, nel suo libro Terroristes. Les 7 piliers de la déraison (Lattes, 2013), «veniva dopo una lunga serie di fatti di sangue meno eclatanti e spaventosi ma non per questo meno indicativi dell’ evoluzione preoccupante della situazione». Il primo terrorista domestico, nato e cresciuto nella banlieue lionese di Vaulx en Velin, Khaled Kelkal fu ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia già nel 1995. A preoccupare gli analisti, è il profilo di questi giovani. Pronti a passare dalla marginalità dei quartieri dormitorio alla delinquenza e, infine, all’ islam integralista. Come spiega Mathieu Guidère, autore di Les Nouveaux Terroristes (Autrement, 2010) e docente della scuola militare di Parigi, che indica come «negli ultimi anni sta emergendo un nuovo tipo di jihadista: nato in Francia, senza contatti con reti come quella di al Qaeda, cresciuto spesso nelle banlieue e che vive il suo passaggio dalla piccola criminalità all’ islam radicale come una sorta di purificazione». Come a dire che crisi economica e razzismo giocano oggi anche dalla parte della jihad.