Morishita Noriko vide La strada di Fellini da piccola e non lo capì. Poi ogni altra volta che lo rivide riuscì a comprendere qualcosa in più di quello che le era sembrato un cupo film in bianco e nero del dopoguerra italiano, finché non arrivò il momento in cui anche la visione di solo qualche scena poteva commuoverla. Comincia con questa premessa il suo romanzo autobiografico, Ogni giorno è un buon giorno Quindici gioie che il tè mi ha insegnato (traduzione di Laura Testaverde, Einaudi, pp. 236, € 16.00).

Uscita appena prima del lockdown, la traduzione italiana arriva quasi vent’anni dopo la prima edizione originale, del 2002: in Giappone il romanzo si impose come long-seller, e ebbe nuova fortuna in seguito all’uscita dell’omonimo film diretto da Omori Tatsushi.

Scrittrice conosciuta nel suo paese soprattutto per saggi e inchieste giornalistiche, Morishita racconta ventiquattro anni della sua vita, da quando poco più che ventenne iniziò le lezioni settimanali di cerimonia del tè nella casa della maestra Takeda a Tokyo. La vita dell’autrice è solo lo sfondo del romanzo, mentre la sostanza riguarda la via del tè, prassi rituale che nasce negli ambienti zen per indurre i partecipanti a concentrarsi sulla ricerca di se stessi: si percepisce, nel romanzo, la raffinatezza di questa arte «del tempo», che solo con la pratica continua può essere compresa, come esplicita già il titolo nichinichi kore kojitsu (ogni giorno è un buon giorno), frase attribuita al monaco cinese Yunmen Wenyan, vissuto fra il IX e il X secolo, e che si legge spesso nelle calligrafie delle stanze da tè descritte nel romanzo.

La strada felliniana non compare dunque soltanto come un espediente narrativo per dare avvio al romanzo, ma è quella che si deve attraversare e vivere, nel tempo, per gustare le implicazioni più profonde e le sfaccettature più sottili di un rito che non ha sempre fatto parte della «tradizione» giapponese, ma che è stato codificato intorno al XVI secolo.

La «spiritualità orientale» che probabilmente ci si aspetta da un romanzo su un’arte del genere non trova molto spazio all’interno del libro: anche gli elementi più «zen» sono comunque funzionali, piuttosto, a contestualizzare la cerimonia che a marcarne un presunto messaggio universale. Il tè, sostiene la protagonista, «ammette qualsiasi interpretazione… il tè è un riflesso di ciascuno». Di certo, manca al libro di Morishita la liricità di alcune pagine su Sen no Rikyo, il più illustre maestro del tè della storia giapponese, presenti invece in Morte di un maestro del tè, il romanzo storico del 1981 di Inoue Yasushi (tradotto di recente in italiano da Gianluca Coci per Skira) e reso celebre anche dalla trasposizione di Kumai Kei.

Qui, tuttavia, la descrizione di gesti, strumenti, utensili, tipi di tè, formule, occasioni speciali, calligrafie che completano l’ambiente della cerimonia (il ricco glossario in appendice aiuterà il lettore a districarsi nei numerosissimi termini tecnici) è tutt’altro che arida e suscita la curiosità di intraprendere quella «via» che, probabilmente, più di ogni altra cosa istruisce alla pazienza.