«Una montagna è una montagna. Un oggetto sul quale la gente proietta i propri preconcetti, le proprie ideologie, i propri desideri. È immobile. E tuttavia può diventare il centro di diverse visioni del mondo». Le parole dell’antropologo Wake Davis dichiarano fin dal primo istante il progetto dietro il docufilm Jumbo Wild, una saga ambientalista lunga 24 anni riassunta in un’ora di pellicola.

Il film racconta i pro e i contro alla costruzione del Jumbo Glacier Resort, una futura super-città della neve di 104 ettari e 6mila posti letto nei monti Purcell, a due ore di macchina da Invermere, nel cuore della Columbia britannica tra Vancouver e Calgary. Un villaggio vacanze con alberghi, chalet e ristoranti che sulla carta avrà 22 funivie collegate a piste da sci che partiranno tra quattro diversi ghiacciai a 3.350 metri, come tra Cervinia e il Plateau Rosà. L’impatto ambientale complessivo del futuro resort è di 6mila ettari.

Questo sogno, o incubo a seconda dei punti di vista, dura da vent’anni, con lo stato canadese che non sa se approvare o affondare per sempre la costruzione.

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Jumbo Wild, fin dal titolo (mantenere Jumbo un luogo selvaggio) è naturalmente un documentario ambientalista. Eppure scarta dalla narrazione che potremmo aspettarci. Con un’operazione più intelligente.

Qual è infatti la vera star del film? La popolazione Ktunaxa che vive su quelle montagne da millenni? L’architetto italo-canadese Oberto Oberti che progetta indefessamente il resort? Gli ambientalisti delle città? I giovani scialpinisti che vogliono la montagna tutta per sé? Oppure sono il grizzly e il ghiacciaio stesso, senza l’uomo chiunque sia?

Beckie Scott, medaglia d'oro Olimpiadi 2002
“La cosa più preziosa che abbiamo in Canada, così rara nel resto del mondo è la wilderness e gli animali selvaggi, il Jumbo Glacier Resort devasterebbe questi valori”

Il docufilm di Nick Waggoner racconta tutte queste sfaccettature e dà voce a tutti i protagonisti, come nella luccicanza di un seracco di neve colpito dalla luce.

Per l’architetto Oberti (italiano emigrato in Canada) costruire il Jumbo Glacier Resort sotto la montagna, innervarla di impianti e piste da sci, «è come costruire una cattedrale, creare le premesse per un’esperienza spirituale, realizzare un luogo dove l’uomo civilizzato può toccare il cielo».

Per le donne e gli uomini Ktunaxa, che vivono lì da 9.000 anni, al contrario, la montagna Qat’muk è sacra da sempre, e cementificarla sarebbe la dolorosa profanazione delle vette dove lo spirito del grizzly «va a danzare» nella notte.

Per il 79% dei cittadini della Columbia Valley che si sono opposti al progetto in un referendum, il resort «è come costruire l’ennesima Disneyland della neve, una squallida speculazione edilizia».

Ciascuna visione è incompatibile con le altre. Ma tutte si arrotolano attorno ai fianchi della stessa montagna. Di questa montagna, come di altre, anche in Europa.

Il film parla delle montagne rocciose canadesi ma la stessa diatriba avvolge il nostro Gran Sasso o il Monte Bianco, con i suoi millenari fianchi di granito solcati da impianti, trenini, piste, paesi, rifugi, fino alla recentissima funivia hi tech SkyWay sul versante italiano. Salire su una montagna in cabine riscaldate, in pochi minuti, è salirla veramente? È progresso o regresso? Di sicuro è una scelta da cui non si torna più indietro. Un’orma indelebile nella natura.

Moltiplicando i punti di vista, la storia di questa remota montagna canadese diventa universale, riguarda qualsiasi luogo vergine. Il 19 febbraio 2013, la Columbia britannica ha concesso lo statuto municipale al resort, anche se questa «città della neve» ancora non esiste, non ha abitanti né strade né case. Un paese fantasma eppure già presente nella burocrazia amministrativa.

Dobbiamo mantenere inaccessibile la natura selvaggia oppure aumentare le possibilità di farne esperienza proprio per la sua potente bellezza? Chi è più «egoista», il giovane scialpinista super-fit che scende nella neve polverosa lontanissimo dalla civiltà o chi vuole mostrare anche a un bambino uno dei posti più belli del mondo?

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Le immagini struggenti di Jumbo Wild irradiano di bellezza il racconto dei protagonisti. Tutti a loro modo innamorati della montagna e del ghiacciaio. Lo stesso ghiacciaio, la stessa montagna, ma per ciascuno diversa.

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L’esperienza delle Alpi in Europa fa capolino qua e là nel film come esempio di ciò che va evitato. Certo, i pascoli del Breuil sotto il Cervino oggi non esistono più. Ma veramente lo stile di vita ad esempio in Alto Adige, con i prati e le foreste ben mantenute, è così deleterio per le terre alte? O rappresenta invece il tentativo, mai perfetto, di convivere con la natura e avvicinarla ogni volta al tempo presente, rimetterla nel flusso della storia senza consegnarla al mito o alla vuota eternità.

Quei monti dove «danzano i grizzly» resteranno vergini o saranno segnati per sempre. Sarà possibile un compromesso tra due visioni tanto assolute? Superfluo dire quale, tra le due ipotesi, sia quella che più affascinerà lo spettatore, che termina la visione del film con un’orchestra che suona un lugubre requiem al ghiacciaio durante i titoli di coda.

Segno ambiguo anche questo, perché anche se quella montagna resterà immacolata, l’inquinamento su altre montagne, in altri continenti, la influenzerà e ne sfigurerà il volto con i gas serra. Davvero, nessun luogo è lontano. E ciascuna montagna, anche la più inaccessibile, è il mondo intero.