In un pomeriggio afoso di luglio del 1986 – fuori le cicale compulsavano l’aria, l’accendevano a furia di sfregamenti, di una nevrosi meccanica, estenuante di cartilagini, ali veline e catafratte, bave, becchi che si biforcano dentro un ingorgo terrificante d’insetto, mentre l’ombra degli alberi ordinati in filari lungo i cigli cercava di stemperarne il peso, il presagio come di morte: la fine dell’ennesima estate avallata da balbe folate dall’orizzonte, e il valico adolescenziale, il valzer degli addii di lì a poco – comparve sugli schermi dei televisori bombati, un cartone animato che avrebbe condizionato le esistenze acerbe, i sogni, le nostalgie di un’intera generazione.

ERA «HOLLY E BENJI», serie animata tratta dal manga di Yoichi Takahashi che variava (e in un certo senso edulcorava) le tematiche e i tratti, lo stile compositivo già emersi in quella sorta di archetipo rappresentato da Arrivano i Superboys, derivato a sua volta dal manga di Ikki Kajiwara e trasmesso in Italia a partire dal 1980, vero e proprio capolavoro di rude realismo, fino ad apici di espressionismo vigente non solo nella spigolosità delle sagome ma anche negli sfondi lividi, ustori: cieli ingialliti, tumefatti o rossigni, campi di calcio in terra battuta, in preda al fango quando pioveva; e capitava che piovesse molto spesso, così le nubi, un grigiore tumido, tragico, avvolgevano il gioco e lo spazio in un’esperienza atavica, mitica, come accadeva già nell’Uomo tigre e in Rocky Joe, anch’essi ricavati dai manga di Kajiwara.

ERANO PASSATI pochi giorni dalla finale della coppa del mondo in Messico di cui riecheggiava il gol di Maradona contro l’Inghilterra ai quarti, il tango ballato partendo da centrocampo a ritmo di bandoneon, il più bel gol della storia, inno allo spazio flagrante, alla cinetica, alle leggi della dinamica; quando si sentì per la prima volta alla televisione la sigla cantata dalla voce, come fosse d’oro (zecchino), di Paolo Picutti che aveva scongiurato non si sa come l’incombere sbarazzino, uno e trino, di Cristina D’avena; e di lì le prime prodezze di Holly Hutton appena arrivato in città, e poi Benji Price, Mark Lenders, Julian Ross ecc., tutta una nomenclatura anglo-americana che era la grande trovata del doppiaggio italiano. E finita ogni puntata si scendeva per strada, l’afa smorzata dal sormontare dei muretti rispetto all’atrocità essudata dal sole, le rondini a urlare e rutilare ubriache nella risaputa campitura turchese, folli di felicità (le sole al mondo) per tutti quei bambini ruzzanti nelle vie, sui falsopiani che s’allungavano fino ai cancelli del cimitero alla fine della città, o sulle pietraie estese al di là delle case, sui terreni gibbosi su cui s’involavano con il Tango tra i piedi, mentre cercavano di riprodurre le coreografie dei gemelli Derrick, la «triangolazione aerea» usando come trampolino un tronco di cipresso, o la «catapulta infernale» quando si lanciavano e scivolavano, anzi si scarnivano, spalle a terra e gambe piegate a mo’ di pistoni, sulla durezza impietosa del selciato, tant’è che al tramonto (latore sanguigno di ogni fine) si tornava a casa bisunti, consunti di schiena, quando non spezzati di clavicola, di costole, di spina dorsale.

DOPO VARIE vicende ambientate nel corso degli anni Novanta e dei primi anni del Duemila, al centro di appendici della serie originale uscite in quel periodo, tra cui ad esempio l’incontro di Rob Denton con Roberto Baggio o la composizione delle giovanili della nazionale giapponese piena zeppa di mezzepunte e centravanti adattati a mediani, terzini ecc., e poi mondiali, trasferimenti onerosi in Europa; a partire dal dicembre 2019 è arrivato sulle televisioni italiane (attualmente in corso su Boing) un remake di quella prima stagione, occasione (e ingiunzione da parte della produzione giapponese e dell’autore del manga Takahashi) per tornare anche nella versione italiana alla lezione originale, con tutti i nomi dei personaggi in giapponese.

COSÌ Capitan Tsubasa appare come una trasposizione fedele della prima stagione andata in onda negli anni Ottanta, attualizzata ai giorni nostri e tornita dal punto di vista grafico con l’aggiunta di fotogrammi in favore di una maggiore fluidità dei movimenti, delle corse, dei salti vertiginosi, quell’epistemologia del volo, del galleggiamento, di cui i gemelli Derrick sono corifei, e che è scoperta, esplorazione, sospensione dello spazio e soprattutto dell’aria, la stessa che innerva l’omonimo videogioco uscito ieri. Si tratta di un arcade – non certo di una simulazione alla maniera di Fifa –, naturale, coerente prolungamento linguistico del cartone animato: vi emerge la dimensione coreografica, gestuale portata a livelli iperbolici, come quando Ed Worner, attraverso una combinazione di tasti e leve, usa il palo della porta per darsi la spinta decisiva verso l’ovoide in cui si è tramutato il pallone, o avviene un contrasto tra due fuoriclasse, e allora ci si ritrova a cinque metri da terra a rutilare intorno al Tango (inveterato oggetto del desiderio della nostra infanzia), smilza, virtuale consolazione per chi un tempo s’è rotto i legamenti del ginocchio tentando di corrispondere al volo derrickiano.