In un articolo di Giuliano Foschini su la Repubblica del 20 ottobre relativo ai «concorsi truccati» si legge che «Onida e Cheli offendono i pm». E che, udite udite, l’inchiesta criticata dai suddetti riguarderebbe «alcune sentenze pilotate al Tar di Bari». Ma come, non era l’università il luogo del malaffare? Che c’entrano le sentenze? Ma allora, direbbe Shakespeare, non c’è del marcio solo in Danimarca; anche in Olanda non è che si stia meglio, vien da dire.
Ma il punto che viene in mente è: se ci sono stati pasticci nelle università, giudicano i magistrati. Se poi ci sono stati pasticci al Tar, chi giudica? Ancora magistrati. Non quadra, non quaglia. Che i magistrati abbiano un supremo organo di giudizio – il Csm – pare una ovvietà nella visione moderna della divisione dei poteri. Certo chi, se non un uomo di legge, può verificare se la legge è stata applicata? Chi ne sa di più, di legge, dei giuristi? È dunque più che legittimo che la magistratura nel suo complesso si doti di un organo supremo di autogoverno, o autocontrollo. Fin qui torna.
Ma poi viene un altro problema. Chi ne sa di più di filologia romanza se non un accademico di filologia romanza? Giudicare nel merito della cultura, in questo periodo di furore demoniaco per la valutazione, pone un problema del tutto analogo a quello dei magistrati. Posso supporre di far giudicare la congruità di una valutazione «scientifica», o «culturale» da chi ricopre una posizione di grado più elevato entro lo stesso ambito. Ma quando si arriva al livello dell’università come si fa? In teoria, almeno, dovremmo essere al livello massimo della competenza.
Allora, volendo banalmente percorrere una analogia, anche l’accademia dovrebbe avere un suo organo supremo di autogoverno, in grado di censurare eventuali comportamenti scorretti. A maggior ragione in forza di quell’articolo 33 della Costituzione che garantisce l’«autonomia» alle università, e che dopo la «mitica» legge 240/10 (Gelmini) sembra fatuo vaniloquio. Viceversa, sono di nuovo i magistrati a «giudicare». Sempre in teoria, essi non entrano nel merito ma giudicano la corretta applicazione dei criteri puramente «formali».
Ecco che un concorso, in Italia, si trasforma nell’abilità di compilare in modo bizantino una gran quantità di verbali ovvi, nulladicenti e puramente burocratici. Verbale della seduta preliminare (dove si «fissano i criteri di giudizio dei candidati»), verbale dell’analisi dei titoli, etc… le segreterie hanno i prestampati, pensati per esorcizzare ogni possibile ricorso al Tar. Analizzare davvero quel che un candidato ha scritto, o quanto vale, diventa l’ultimo dei problemi. Siamo tre commissari e, poniamo, siamo tutti d’accordo che il più meritevole è il dottor Rossi. Si potrebbe fare tutto in mezz’ora. Ma invece no, ci vogliono giorni interi. A fare cosa, a leggere gli scritti, a valutare i curricula? Ma no, a compilare i verbali naturalmente.
Uno dice: dopo però così sto tranquillo. Ma certamente no. C’è chi deposita il nome dei vincitori presso un notaio prima del concorso. Ci sono le intercettazioni. C’è, insomma, il genio italico in tutto il suo splendore. E dunque inchiesta sia. C’è da dire che alcune cose non aiutano:

  1. una legge farraginosa, come la 240/10, di cui l’unico connotato chiaro è l’intento baronale, verticistico e fascista; una legge che oltraggia l’autonomia dell’università oltre che il buon senso, nel definire la «governance» (cfr. art. 2) da un lato, e che dall’altro rimanda ogni altra questione essenziale a una sequela infinita di decreti attuativi;
  2. un organo di valutazione di nomina governativa, l’Anvur, come non si era visto nemmeno ai tempi del MinCulPop, che esercita la più esecrabile creatività nell’inventare criteri spesso risibili e persino contraddittori, che imbavaglia, magari inconsapevolmente (secondo il rasoio di Hanlon: «Never attribute to malice that which can be adequately explained by stupidity», mai presumere cattiveria dove a spiegare il fenomeno basta la stupidità) la «vera cultura» entro il perimetro del monopolio dei grandi editori;
  3. una specie di società rosacrociana, né pubblica né privata, la Crui, club dei magnifici rettori, assurti a rango di monarca assoluto con la succitata legge, che pratica la più totale delle ipocrisie, lanciando fulmini e saette contro il ministro di turno, e ponendosi prona in ogni circostanza essenziale;
  4. una pletora di alti papaveri del ministero, di dubbia qualificazione scientifica ma di enorme potere, che incidono sulle politiche culturali di una intera nazione, in base al centralismo autoritario introdotto ex lege (è chiaro quale).

E qui mi fermo per ragioni di spazio.

Ma non sarebbe logico che in analogia al Csm anche per il mondo accademico fosse un organo trasparente ed elettivo come il Cun a giudicare della congruità dei concorsi?
Sappiamo bene quali mali possa indurre l’influenza degli altri poteri su quello giudiziario, l’abbiamo sperimentato nel Ventennio. Ma perché dovremmo trovare accettabile che gente non del mestiere giudichi dei concorsi accademici? E, di conseguenza, del futuro sviluppo culturale, al livello più alto, del paese?

* università di Bologna