Che festival è stato questo dei settant’anni, strana festa di compleanno,celebrata con un album di famiglia di divi e grandi nomi in posa per la foto di gruppo sulla Montée des marches? Un malinteso, è la parola che ne riassume meglio la filosofia – penso mentre rispondo alla domanda di un’ amica critica bravissima francese che chiede di definire il concorso con un aggettivo. Thierry Frémaux ha cominciato male, e non perché Les fantomes d’Ismael di Desplechin non valga ma è stato un passo falso – specie per il film – metterlo in apertura senza peraltro nemmeno rischiare il director’s cut. Pazienza. Da allora sembrano passati secoli – e invece sono appena 15 giorni. Poi ha chiamato gli autori di Cannes – i 70 anni non c’entrano, è sempre così nella selezione che deve tenere conto delle esigenze coproduzioni francesi grossi distributori – per comporre un concorso che ci ha dimostrato di nuovo (vale anche in altri festival) che è sempre più necessario rischiare, che gli scossoni arrivano dall’imprevisto, vedi il risveglio all’adrenalina di Good Time dei fratelli Safdie (era successo lo stesso l’anno scorso con Toni Erdmann di Maren Ade, una sconosciuta sulla Croisette).

Ma il punto non è se i «grandi» hanno deluso quanto l’idea del cinema e del mondo che questi film hanno manifestato, metafora crudele (dovrebbero sul tema della crudeltà rileggere almeno Artaud), di un presente cupo che riduce l’immaginario al compiacimento del proprio narcisismo e persino al culto della vendetta integralista (penso ai film di Lanthimos e di Fatih Akim, pericolosamente sintonizzato con gli umori populisti della «realtà».

In attesa dell’assegnazione della Palma d’Oro,  tasera, della giuria con presidente Pedro Almodovar, sono arrivati i premi del Certain Regard, giuria presieduta da Uma Thurman sola donna tra Mohamed Diab, Reda Kateb, Joachim Lafosse) dove ha trionfato Jasmine Trinca come migliore attrice per Fortunata di Castellitto (in sala), un premio dedicato alla madre e a sua figlia.

Ed è arrivato il nuovo film di Roman Polanski, scandalosamente fuori concorso, con molti festivalieri già partiti, ma anche qui è persino scontato visti gli attacchi pubblici rivolti al regista in Francia nei mesi scorsi che lo hanno obbligato a rinunciare alla cerimonia dei Césars. Eppure è un grande maestro e a differenza di altri coi suoi 84 anni mantiene la leggerezza di chi sa mettersi in gioco. D’après une histoire vraie è un film radicalmente polanskiano, per certi aspetti quasi un sequel tra le sue «ossessioni» della creazione letteraria – o della creazione in assoluto – esplorate altre volte (in film come The Ghostwriter), una variazione senza ripetersi col piacere di lasciarsi portare da una macchina da presa in un paesaggio dell’immaginario che non cerca l’umiliazione a ogni costo dei personaggi e dello spettatore solleticandone col «grande tema» la partecipazione compiaciuta al gioco al massacro.

All’origine c’è il romanzo di Delphine de Vigane che Polanski ha riletto nella sceneggiatura scritta insieme a Olivier Assayas in un campo controcampo tra due donne (da Assayas esplorato in Sils Maria): Delphine, scrittrice all’apice del successo dopo l’ultimo libro, una storia molto personale, ispirata alla madre suicida. E Elle – come il personaggio di Verhoeven – una donna più giovane, enigmatica, perfetta anche alle sette del mattino, che la adora. Piano piano Elle entra nella vita della scrittrice, diviene la sua confidente, il suo sostegno in quel momento di fragilità che precede l’inizio di una nuova creazione.Delphine è spaventata dal peso dei suoi lettori – l’inizio è una galleria di facce, deformate che si avvicinano per farsi firmare una copia del libro – dalle lettere anonime che l’accusano di avere cannibalizzato la sofferenza della madre, e per questo ha deciso di scrivere un libro tutto di finzione, lontano dalla sua esperienza.

Anche Elle scrive, ghostwriter di biografie dei personaggi famosi, vorrebbe invece che Delphine finisse il suo «libro segreto», ispirato ai ricordi intimi, alle sue sofferenze. La realtà è quello che interessa il pubblico, le ripete, ma per l’altra ciò che conta è invece la narrazione. I legami si rafforzano, Elle «diventa» Delphine, si veste come lei, risponde alle sue mail, vive a casa sua, mentre scrive la biografia di una annunciatrice televisiva molto nota, e il romanzo di Delphine dovrebbe raccontare il mondo del reality show…

A affrontarsi in questo doppio ci sono Emmanuelle Seigner, versione dimessa, e Eva Green, la dreamer di Bertolucci poi Bond-woman che Polanski trasforma in una macchina horror: occhi sgranati, facce da pazza, scatti di ira, spaventosa presenza immateriale che forse non esiste, che forse è solo la proiezione letteraria di una nuova storia. Che poi lo spettatore creda a questa possessione dell’una sull’altra poco importa, anzi la sua natura «irreale» è quasi esplicita. Ma a che punto ci si può spingere, quale è il limite tra l’autore e il suo personaggio, tra la realtà e la sua rappresentazione? (tema che aveva ispirato Assayas in Sils Maria). Polanski conduce la sua riflessione con autoironia, dal noir delle stanze chiuse dell’appartamento elegante di Delphine all’horror nella casa di campagna del suo uomo, ne punteggia i passaggi di riferimenti e citazioni. Per dirci che la verità come la vita dell’artista è sempre nella sua messinscena, nulla sarà mai più forte. In una Croisette di pretenziose finestre sul reale un punto di fuga altissimo.