«Essere femminista, antimilitarista, anarchica, non violenta, ecologista sociale, vale a dire lottare per un mondo giusto e libero, soprattutto essere in grado di attirare molte persone attorno a questa utopia, disturba coloro che detengono il potere». Pinar Selek, sociologa turca, attivista e intellettuale influente, ha 47 anni e una vita straordinaria al fianco degli oppressi. Queste scelte, in seguito a una ricerca sulla questione curda, le sono costate torture, accuse di complicità con il Pkk e due anni e mezzo di carcere e un iter giudiziario che ha dell’incredibile.
Curdi, armeni ma anche comunisti, sono diversi i nomi e le appartenenze messe a tacere negli anni in Turchia, insieme ad altrettante forme di resistenza fin dentro le prigioni. Dinanzi alla prima sentenza che avrebbe inaugurato la sua dolorosa vicenda legale, cominciata nel 1998, dice che è stato come «ricevere notizie sulla morte di qualcuno molto caro. Ci si chiede: ’ Può essere vero? È giusto?’». La solidarietà ricevuta è stata enorme, da Amnesty a numerose comunità scientifiche e reti internazionali. Oggi Pinar Selek, esiliata in Francia, scrive libri (in Italia editi da Fandango) tradotti in molte lingue e prosegue nella sua lotta per la giustizia sociale. «Sono stata di fronte alla verità irrazionale del dominio. Fanno di tutto per criminalizzarti, per isolarti. Eppure non sono così forti perché sono ancora qui. E continuo».
L’autrice è a Roma per alcuni incontri: oggi alle 18.30 il primo nell’ambito Le ragazze sono in città (via Monte Berico 5); domani sarà alla libreria Tuba e sabato a Più libri più liberi.

«La maschera della verità», memoir denso e di testimonianza del 2014, è stato scritto alla vigilia del centenario del genocidio armeno. Lei racconta di aver appreso solo all’università chi sono «i resti della spada» – così chiamati gli armeni – e di come la narrazione ufficiale turca abbia voluto fare pulizia anche di quei brandelli. Nessuna notizia nei libri di testo, nessun riferimento neppure nel ricordo comune. Come si fa a cambiare di segno una storia così violenta?
Ho deciso di decostruire me stessa perché ho visto che, nonostante fossi cresciuta in un ambiente intellettuale in opposizione, appartenevo comunque al gruppo dominante. Decostruirmi pubblicamente sarebbe stato un atto rivoluzionario. L’ho fatto e ne sono orgogliosa. Questo libro è tradotto anche in arabo e in armeno, quindi sono riuscita a svelare la costruzione di un’identità dominante, basata su sangue e lacrime. Certo non è stato facile, tuttavia era necessario iniziare a mettere in discussione tutto ciò che aveva l’apparenza della normalità, tutte le immagini positive. Operazione complessa ma liberatoria.

Nell’«intreccio di microcosmi» che è Istanbul, immersi nel quartiere di Yedikule negli anni Ottanta, vivono i personaggi del suo romanzo «La casa sul Bosforo», scritto nel 2013 e tradotto da Fandango. Lo sfondo è una città stupefacente che «ora piange, ora ride» tra gli orrori, il colpo di stato ma anche le lotte…
Quando ho intrapreso la strada per l’esilio, Istanbul mi ha seguita. Non come un bagaglio, bensì sanguinando dentro di me. Per bloccare l’emorragia, mi sono dovuta fermare. Prima di rivolgermi ai nuovi luoghi, ho toccato ciò che stava soffrendo. Mi sono presa cura dello strappo e scrivendo l’ho ricucito con questo romanzo; avevo esplicitato uno spazio interno, la mia parte di cui non sentivo più la voce. Così dall’altro capo del mondo, ho trovato la mia Istanbul, l’ho vista, l’ho ascoltata, ho persino coltivato un’utopia nelle sue strade. È stato come tramutarmi nella pioggia che carica le nuvole per poi cadere su un antico cimitero e nutrire coloro che sono ancora vivi, proprio lì. Con le parole ho cominciato a innaffiare piccoli semi, grani che attendono. Non potevo tornare a casa, ma La casa sul Bosforo ci è andata lo stesso ad aprire le porte, sono entrate decine di migliaia di persone.

I personaggi femminili del romanzo sembrano essere i più assetati di libertà. E di amore. La passione politica può avere la stessa intensità di quella privata?
La passione politica è naturale perché tutto è connesso ed è frammento della nostra vita e dei nostri desideri. Vogliamo essere felici e liberi. Vogliamo fiorire come un germoglio e desideriamo un cielo blu, sguardi delicati, voci di gioia. Vogliamo vivere l’amore e respirarlo. È appassionante, eccitante.

Quasi alla fine del libro, una delle protagoniste (Elif) dice che ogni cosa cede al tempo. E che avrebbe cercato qualcosa di differente e inconsumabile, aggiungendo poi, sicura, che l’avrebbe trovata. Lei ha avuto lo stesso desiderio? E se sì, lo ha esaudito?
Sembra una contraddizione ma per un verso ho un desiderio feroce e inesausto di vivere che il tempo non può uccidere. E allo stesso tempo provo a tenere con me il piacere di essere di passaggio.

Nel 2001 ha fondato insieme ad altre la Cooperativa di donne «Amargi». Da quella esperienza è nata nel 2006 l’omonima rivista e, due anni più tardi, la prima libreria femminista della Turchia…
Diventare femminista, oltre a posizionarsi contro i rapporti di dominazione tra i sessi, trasforma più o meno le nostre esistenze, la nostra visione della lettura del mondo, il nostro modo di partecipare alla vita collettiva, offrendoci strumenti in grado di decostruire l’ordine sociale. Tuttavia, questo ordine è rafforzato, ora più che mai, dall’economia globalizzante neoliberista nonché dallo sviluppo di mezzi di controllo e distruzione. Vedere la disparità senza precedenti tra il dominante e il dominato, comprendere un così alto livello nel potere che mantiene se stesso sarebbe sufficiente a stabilire un pessimismo definitivo. I meccanismi di manipolazione delle masse ci hanno inchiodato in un film di fantascienza. Di fronte a questo clima di disperazione, le teorie e le lotte femministe offrono speranza? Ho detto che il femminismo ci offre strumenti in grado di decostruire l’ordine sociale. E ora siamo sulla soglia di un crinale diverso da quello degli anni Settanta e che deriva dalle molteplici conseguenze di quest’epoca e delle risorse disponibili. Ciò che è stato seminato dalle riflessioni femministe e dalla pratica negli anni ha aperto molti varchi; le nostre fonti di influenza teorica sono proliferate quando la conoscenza femminista è cresciuta dalle nostre esperienze di lotta contro le molte sfaccettature del patriarcato e di altri sistemi di dominio. Oggi decifriamo meglio le logiche, i collegamenti ideologici e concettuali dei diversi sistemi di dominio, perché l’approfondimento dei saperi femministi risponde più alla complessità della vita sociale del presente. Le attuali lotte femministe stanno esplorando un’ampia varietà di possibilità, con nuove convergenze e mobilitazioni multiformi.

A cosa sta lavorando adesso?
Ho appena finito un nuovo romanzo che è stato pubblicato in Turchia. Ha avuto un grande successo, a livello di media, critiche e vendite. Questo successo nel mio paese, dove non posso andare, è molto importante, ma la mia impazienza di vedere la reazione del mio secondo paese è più forte. Perché, questo romanzo è un atto di resistenza per me, rispetto ai confini in cui siamo rinchiusi.
So che ci si aspetta che io o uno scrittore esiliato scriviamo delle strade dell’esilio, ma questa volta ho scelto di creare una narrazione che si svolge nello spazio in cui le persone in mobilità si incontrano, emancipano e scardinano insieme i confini nazionali, l’ordine etnico e sociale. Tutto accade a Nizza, una città di confine, che nasconde esperienze impossibili. Quando l’ho finito non ero più la stessa persona. Per passare a qualcos’altro, ora dovrò fare un vuoto. Aspetterò un po’.