È uno spazio enorme quello che Federica Santoro ha abitato nei giorni scorsi con la sua Anitra selvatica, la chiesa sconsacrata di Santa Caterina a Foligno. L’occasione le è stata offerta dalla Società dello spettacolo, compagnia che qui gestisce una delle cinque residenze umbre dedicate al teatro, con le poche risorse destinatele da Mibact e Regione. Ma la penuria del finanziamento è supplita dalla volontà di provocare incontri del gruppo diretto da Michelangelo Bellani, che per questa sesta e ultima ospitalità del Performing Santa Caterina ha innescato un meccanismo virtuoso intorno al progetto dell’attrice romana. Santoro ha infatti raccolto una compagine articolata sullo sconfinamento in diversi campi artistici, mostrata come un unico corpo al servizio di quest’opera ancora in divenire, ma del tutto compiuta nel suo formato multilinguistico.

Dal dramma di Henrik Ibsen Santoro ha distillato dei nuclei tematici funzionali alla creazione di un organismo angosciato e sofferente, e in lotta per l’emersione di una verità inutile a migliorarne l’esistenza. Nell’incipit il sussurrato «voglio morire» è diretta conseguenza della miseria di casa Ekdal, ma è subito rinnegato dall’avvio dell’azione. Le lunghe diagonali illuminate da Dario Salvagnini, che l’attrice percorre con gran risuonar di passi, la trasportano da un personaggio all’altro, incrociando talvolta Gabriele Portoghese, attraverso un processo maieutico che paradossalmente si arresta al momento dello svelamento. Il lavoro sull’Anitra arriva per ora al terzo atto, quando appunto Georg, figlio dell’industriale Werle, rivela a Hjalmar che sua moglie Gina, quindici anni prima, è stata l’amante del vecchio Werle, relazione da cui è nata Hedvig, colei che il misero Hjlman crede essere sua figlia (e che si ucciderà in soffitta tentando di sparare all’amata anitra).

Con i pochi elementi scenografici di Marina Schindler e le proiezioni video di Diana Arbib quest’Anitra si snoda come una grande installazione in cui il corpo-voce dei due performer restituisce una dimensione drammaturgica concettuale, frutto di un’elaborazione del testo che diventa un pre-testo. Uno smontaggio anche spaziale dell’azione con gli spettatori che attraversano la grande navata per raggiungere la sacrestia, dove campeggia il piccolo dipinto Ettore Frani, una massa bianca che si stacca dal fondo nero come fosse una materia viva in rilievo. Mentre Luca Tilli finalmente suona il suo violoncello.