Nella sala stampa del Palais gli schermi video col marchietto Canal plus mandano a loup interviste, nateriali d’archivio, divi passati e presenti mentre il sound del tappeto rosso tra grida di fan e nomi amplificati di star martella pesante. Un po’ come nella selezione ufficiale dove a parte alcuni film – ieri l’opera prima del regista ungherese Laszlo Nemes Saul Fia, collocato in un orario complicatissimo – l’impronta di Pierre Lescure, il nuovo presidente del Festival sembra profilarsi da subito molto netta. Chissà cosa accadrebbe in questa cittadina di Riviera popolata, almeno secondo un reportage sul quotidiano Libération, da ricchi pensionati Porsche e yatch muniti, e da cui i ragazzi tendono a scappare via appena possono, se non ci fosse più il cinema! Ci penso percorrendo un’affollata Rue d’Antibes, lusso volgare esibito all’inverosimile e «misure di sicurezza» peraltro prevedibili dopo il massacro della redazione di Charlie Hebdo.

«Chi viene al mondo per non cambiare non merita considerazione». Benvenuti alla Quinzaine des Realisateurs che per inaugurare la sua edizione numero 47 ha scelto il nuovo e magnifico film di Philippe Garrel, L’ombre des femmes, preceduto dal cortometraggio dello stesso regista, Acte 1, Parigi nei giorni del Maggio 1968, rivoluzione e repressione, cambiare è l’utopia che si fa realtà contro i gas lacrimogeni delle celeri, le pallottole, le botte nei commissariati, la violenza di uno stato che esige un permesso anche per respirare. Bianco e nero, in pellicola trentacinque millimetri che ronza appena nella sala strapiena del Noga Hilton, sede della Quinzaine, è la più bella risposta al terribile film da «senso comune» scelto per l’apertura (fuori concorso) di Emmanuelle Bercot (A testa alta) con le sue regole di legge, ordine, principi più reazionarie del peggiore conservatorismo sarkozista.

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Ed è da parte della sezione diretta con passione da Edouard Waintrop anche una scelta forte di cinema. Che significa stare, per esempio, con immagini oblique e indipendenti, fuori dai grossi budget ma anche fuori dalle mode «artie» che tanto piacciono ai programmer mondiali. Lui, Garrel, è genialmente «inattuale» e sempre contemporaneo.

Cosa racconta L’ombre des femmes scritto dal regista insieme a Jean-Claude Carrière, Caroline Deruas e Arlette Langman? Di una coppia, il luogo dell’anima del regista: un uomo e una donna che si amano, vivono e lavorano insieme, condividono la passione per il cinema – lui è regista di documentari – i pochi soldi e le difficoltà. Lei ha lasciato i suoi studi di lingue orientali per seguirlo, alla madre che la rimprovera dolcemente, ironizzando sul genio dell’uomo, risponde che ha seguito il suo amore. Il talento di Pierre (Stanislas Merhar) è porre alle persone le domande giuste, e saper ascoltare le loro risposte. Stanno lavorando a un doc sulla Resistenza in Francia, il protagonista è un vecchio partigiano eroico che racconta di quei giorni con pudore, ai figli non ha mai detto nulla delle sue azioni, i due registi ascoltano e visionano materiali del tempo.

Ma la loro non è una relazione senza spigoli: Pierre inizia una storia con una giovane archivista Elisabeth (Lena Paugam), non l’ama ma è attratto dal suo corpo, la raggiunge nella stanzetta ammobiliata, fanno l’amore e lui scappa via, ai dubbi delle sue emozioni risponde che lo fa perché è un uomo, e dunque è giusto così’.
Manon (Clotilde Courau) ha a sua volta un amante, per Pïerre è inaccettabile: «’Solo’ gli uomini possono essere infedeli» le grida mentre lei si giustifica, le ragioni di Manon sono il bisogno di sentirsi desiderata, il dolore perché lo stava perdendo, molto «femminili».

Bianco e nero anche qui, girato in pellicola (ma proiettato in digitale) con la luce che accarezza senza compiacimenti di Renato Berta questo film segna però un passaggio nell’universo garreliano e del punto di vista narrante. Una coppia in crisi, abbandoni, massacri e tradimenti, e l’autofinzione della vita, quella del regista, degli amori e delle sconfitte lancinanti di un’utopia, che attraversa tutti i suoi film si allarga al femminile: uomo e donna sono messi a confronto nella «verità» impossibile del sentimento e insieme di una Storia che la sola memoria non può restituire. Perché la memoria inganna e si fa ingannare dal desiderio o dal rimorso.
C’è una scena, molto bella, mentre il partigiano parla la moglie (Therese Quentin) offre dei biscotti all’anice, forse stanca di quell’«ombra», di quelle parole ascoltate infinite volte.

L’immaginario è rivoluzionario come i sentimenti quel «privato politico» delle strade sessantottine, della rivolta accompagnata dalle parole di De Sade. E nell’intreccio tra lo sfascio della coppia e la Storia Garrel interroga la verità delle immagini, il pretestuoso gender che circoscrive «realtà» e «finzione» laddove la prima si dichiara oggettiva, ma come ci dice sempre anche Godard la verità è possibile solo nel massimo della sua messinscena, consapevole e non spacciata per «vera».

Un po’ come pellicola e digitale, non è semplicemente questione di nostalgia, è sostanza, materia, la grana del diario intimo di una poetica in cui lo spazio della vita diventa storia, e storie, e lungo i bordi del fotogramma, dentro e fuori, libera i sogni di un cambiamento e la durezza delle sconfitte, piaceri e battaglie, seduzioni e conflitti. L’immagine potente di un sentimento che narra il mondo.