Grazie a Dio è uscito in Francia il 20 febbraio scorso. La data era importante perché precedeva di un mese la sentenza del caso Preynat, che il film ricostruisce in maniera assai fedele. I fatti risalgono ad un periodo che va dalla fine degli anni ottanta all’inizio degli anni novanta. E riguardano un prete della diocesi di Lione, accusato di aver molestato sessualmente tre scout, i quali diventati adulti decidono, laboriosamente e non senza dolore, di denunciare gli abusi subiti. Nel frattempo, il crimine è caduto in prescrizione. Ma il pubblico ministero decide comunque di istruire un processo. È in questa occasione che il vescovo della diocesi, Philippe Barbarin, pronuncia la frase che dà il titolo al film : «I fatti, grazie a Dio, sono prescritti».

Non c’è dubbio che, in questa storia presa alla cronaca, ci sia ampiamente la materia per un film. Ed in particolare per un film di Ozon, che abbiamo visto in diverse occasioni a suo agio nel dramma familiare, e nel dar forma straordinaria, fantastica o persino mostruosa ai sogni e agli incubi dei rapporti intimi più ordinari. Ora qui si tratta di fare piuttosto il contrario. Grazie a Dio è un’inchiesta sull’anormalità, su qualcosa di mostruoso, ma il tema richiede, o meglio esige, un tono asciutto e un trattamento realistico. Ed è esattamente a questa disciplina che Ozon ha dovuto sottomettere il proprio estro, ottenendo un film rigoroso, metodico, strutturato e al tempo stesso pieno di snodi imprevisti, tanto più stupefacenti che l’esercizio della cronaca giudiziaria, comune nel cinema anglosassone, è raramente un successo in quello francese.

Uno degli ostacoli che Ozon ha dovuto sormontare è esso stesso giuridico. Grazie a Dio è uno di quei film la cui sceneggiatura passa attraverso le mani degli avvocati prima di entrare in produzione. Ed in effetti il produttore Canal+ si è defilato, paventando rogne che si sono puntualmente verificate: il film è stato citato in giudizio da alcuni degli accusati del processo Preynat, e nello specifico da Régine Marie, ex volontaria della diocesi che ha chiesto che il proprio nome non apparisse nel film, per rispetto della presunzione di innocenza. Richiesta non accolta dai giudici perché la presunzione di innocenza non può impedire l’esercizio della libertà di espressione.

L’ALTRO ostacolo era insito nella materia stessa che il film affronta. Ed era doppio: da un lato c’era il rischio di produrre un opera manichea e francamente stucchevole. Dall’altro quello di rinchiuderla nella propria abnormità, come un’eccezione che in quanto tale è priva d’interesse generale e sulla quale non si può o non si dovrebbe generalizzare.

Con pazienza e mestiere, Ozon riesce a svicolarsi dal primo ostacolo, senza invece evitare il secondo, anzi implementandone il senso e facendone l’essenza stessa di Grazie a Dio. Il procedimento è quello della microstoria, che abbiamo visto tante volte all’opera nei libri dello storico Carlo Ginzburg. Si tratta di dettagliare con precisione un caso particolarissimo. In questo processo, tre casi. Il primo è quello di Alexandre (Melvil Poupaud), un padre di famiglia con una vita perfettamente integrata dentro il brodo della buona borghesia cattolica lionese. Microcosmo sociale sofisticato ma rigido, al punto che la sua denuncia non può smuoverlo ma solo incrinarlo o mandarlo in pezzi. C’è poi François (Dénis Ménochet) che è tutto il contrario del primo: un uomo istintivo e confusionario, il quale ha sepolto il ricordo sotto un coperchio pronto ad esplodere. Il terzo è Emmanuel (Swann Arlaud), scout come i primi due, vittima dello stesso prete, ma che al contrario degli altri due non è riuscito a farsi una vita, è rimasto allo stesso punto, come una ferita aperta che non si rimargina mai.

È ANDANDO al fondo di queste tre storie, e grazie ad una eccezionale performance di tutto il cast, che la verità appare. Non solo la verità empirica e evidente – tre persone sono state violentate – che la chiesa ha fatto di tutto per nascondere. Ma come questo triplice incidente diventi il rivelatore di un elemento sostanziale della chiesa, e forse della società. Ora, è corretto giudicare tutta un’istituzione a partire da un caso particolare, eccezionale, abnorme ? Non dovrebbe essere piuttosto la norma, ovvero l’ordinario, a fare la storia? La tesi di fondo del film è la risposta negativa a questa domanda: l’essenza delle cose, e delle persone, non si rivela nell’ordinario, ma in alcune situazioni estreme. La testimonianza dei tre scout è come un detonatore che, esplodendo nelle mani di chi si libera dal peso del silenzio, invade tutte le sfere della società, tocca tutti i rapporti, e in specie quelli di famiglia, rivelando il fondo malsano delle norme alle quali la chiesa offre legittimità. Si coglie così che l’abuso non è un incidente, ma l’essenza stessa della chiesa.