Un incubo durato ventiquattr’ore. Questo è stato il febbrile agitarsi governativo intorno alle spoglie della legge Fini-Giovanardi. Non che non ce ne fosse bisogno. Giusto un paio di settimane fa, riuniti a Genova dalla Comunità di San Benedetto, associazioni, gruppi e movimenti impegnati per i diritti delle persone che fanno uso di sostanze stupefacenti avevano chiesto a Matteo Renzi di prendersi la responsabilità di un decreto per risolvere i problemi urgenti derivanti dalla sentenza della Corte costituzionale.

Il nuovo reato di detenzione di lieve entità di droghe, introdotto dall’ultimo decreto Cancellieri al posto della vecchia attenuante, non distingue le pene per le droghe leggere e le droghe pesanti, producendo una doppia irragionevolezza: reati considerati molto diversi in caso di ingenti quantità diventano un’unica fattispecie in caso di lieve entità; e, d’altra parte, la detenzione di piccole quantità di droghe leggere sarebbe punita quasi come il loro grande traffico internazionale. Per questo serviva un decreto. E anche per sciogliere il nodo del destino dei condannati sulla base delle pene giudicate incostituzionali. Per alleggerire il carico di lavoro dei magistrati e per evitare una eccessiva discrezionalità sarebbe utile una norma che consenta ai giudici di ridurre le pene in concreto in misura corrispondente alla riduzione avvenuta, grazie alla sentenza della Consulta, nella astratta previsione di legge.

Ecco quello che si sarebbe dovuto fare. Un decreto mirato su questioni effettivamente necessarie e urgenti che riguardano la vita di persone condannate (o che potrebbero esserlo) sulla base di norme incostituzionali.

E invece, a quanto pare, la ministra Lorenzin ha fatto preparare una bozza di decreto in cui la Fini-Giovanardi tornava tutta e perfettamente in vigore, come se la sentenza della Consulta non ci fosse mai stata. Bloccata (immaginiamo dal ministro della giustizia) e ricondotta nei confini delle sue competenze, la ministra ha annunciato che il decreto-legge conterrà solo gli aggiornamenti delle tabelle delle sostanze stupefacenti alle nuove droghe sconosciute ai tempi della legge Iervolino-Vassalli rediviva.

Se le cose stanno effettivamente così (al momento in cui scriviamo ancora non si conosce il testo del decreto), l’abbiamo scampata bella. Ma la partita non è chiusa. Soavemente minacciosa, la ministra ha lasciato intendere che gli aspetti penali della legge sulla droga potranno essere affrontati in sede conversione del decreto. Allora è bene essere chiari sin da subito. Il requisito della omogeneità delle modifiche parlamentari al testo di un decreto-legge su cui è caduta la Fini-Giovanardi dipende dalla loro necessità e urgenza, che sole giustificano l’adozione da parte del Governo di un provvedimento con forza di legge. La controriforma della disciplina sanzionatoria della legge sulle droghe non ha alcun requisito di necessità e urgenza. Se le norme penali della Fini-Giovanardi fossero state necessarie e urgenti, una sorta di obbligo divino-costituzionale, la Consulta non le avrebbe cancellate con un tratto di penna. Tanto quelle norme non sono necessarie e urgenti che già nel 2005, di fronte allo stallo parlamentare, il Governo Berlusconi non potè inventarsi un decreto ad hoc per trasformare il progetto Fini-Giovanardi in legge, ma dovette escogitare l’abuso di potere del loro inserimento nel decreto-legge per le Olimpiadi invernali di Torino.

Dunque, in sede di conversione del decreto le Camere potranno certamente esaminare le proposte necessarie e urgenti prospettate dalla conferenza di Genova, ma non ripristinare la Fini-Giovanardi. Se i sodali della ministra Lorenzin hanno qualcosa da proporre, lo facciano in via ordinaria e si confrontino con le proposte di legge Farina, Gozi e Giachetti già all’esame della Commissione giustizia della Camera e che vanno entrambe nella direzione del ricongiungimento dell’Italia con le nuove frontiere di una politica sulle droghe laica, pragmatica e non proibizionista.