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La vera mondezza sotto il tappeto della Capitale

La vera mondezza sotto il tappeto della CapitaleIl sindaco di Roma Ignazio Marino – Lapresse

Chi vive a Roma ha la possibilità di sperimentare tutti i giorni l’asprezza di una condizione urbana e civile che non mostra ormai da anni un barlume di miglioramento. La […]

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 28 luglio 2015

Chi vive a Roma ha la possibilità di sperimentare tutti i giorni l’asprezza di una condizione urbana e civile che non mostra ormai da anni un barlume di miglioramento.

La speranza che qualcosa sia progredito nella qualità dei servizi, nell’agibilità dei trasporti, nella pulizia e decoro dei luoghi. Tuttavia è proprio la lunga durata di questo degrado che dovrebbe mettere in sospetto sull’eccessivo carico di responsabilità che si fa ormai da mesi al sindaco Marino.

Prima che le amministrazioni, occorrerebbe «inquisire», nel senso etimologico del termine, i cittadini.

Come ha fatto con una bella pagina Melania G. Mazzucco ( «Se questo è il volto di una capitale», Repubblica del 26/7). Mazzucco, opportunamente, estende a tutto il Paese l’analisi antropologica della cialtroneria civile degli italiani, su cui gravano non poche responsabilità dello stato presente delle nostre città.

Oggi tuttavia alla lunga durata della nostra storia si aggiungono nuovi guasti. L’etica civile, che prevede il senso del bene comune e la condivisione, è corrosa dall’individualismo edonistico della cultura dominante. In un Paese che ha nella sua storia un debole disciplinamento civile – dipendente dalle scarse capacità egemoniche delle sue classi dirigenti – il veleno nichilistico del capitalismo attuale ha effetti dirompenti. Nessuno si sente cittadino, membro di una civitas, tutti individui che producono e consumano. Crescente è poi la sfiducia dei cittadini nei confronti di ogni potere, e dunque langue il contratto sociale quotidiano che impegna ognuno a fare la propria parte.

Questo non sgrava certamente Marino dalle sue responsabilità. Una su tutte: l’incapacità di far sentire Roma inserita in un grande progetto di rinascita di cui si stanno gettando le fondamenta e che chiama tutti i cittadini a fare la propria parte. Questa capacità Marino non l’ha espressa e forse non la possiede. Benché dalle interviste che rilascia si scorge un onesto e oscuro lavoro di cambiamento delle strutture profonde del potere romano. Tuttavia, le polemiche e le contestazioni anche violente subite dal sindaco a margine della questione «mafia capitale» sono rivelatrici di un modo errato e superficiale di concepire la politica e i poteri di un leader.

Tramontata la concezione della politica come agire collettivo, oggi viene surrogata dalla visione demiurgica del leader che, così come vince le elezioni, trasforma la realtà e il destino delle persone con il suo agire solitario. Si è, ad esempio, rimproverato a Marino di non essersi accorto del malaffare che trescava attorno a lui. Una maggiore attenzione sarebbe stata benvenuta. Ma se ci son voluti mesi di intercettazioni e indagini della magistratura per scoperchiare la pentola, vuol dire che gli scantinati malavitosi sotto il Palazzo erano ben nascosti. Il groviglio di interessi che teneva sotto controllo la capitale mostra al contrario quante difficoltà e condizionamenti doveva e deve subire la politica democratica a Roma. E quindi le scoperte della magistratura militano a favore di Marino, mostrando i limiti storicamente sedimentati entro cui egli ha dovuto collocare in questi due anni la sua azione.

Qui si dimentica un passaggio storico importante. Un tempo, quando esistevano i partiti di massa, i sindaci e gli assessori avevano un più ampio controllo di legalità sugli ambiti dell’economia pubblica, sulle pratiche amministrative, sulle persone. La partecipazione volontaria dei cittadini alla vita politica diventava strumento di controllo e di trasparenza. Dunque l’azione di un leader non era isolata ma era parte di un’azione collettiva che con lui trasformava le sue scelte in iniziativa politica.

Oggi i partiti, non più strumenti di emancipazione collettiva ma al servizio di individui in competizione, sono un coacervo di comitati elettorali in reciproca contesa. E non stupisce che nella polemica di questi mesi non emerga, in alternativa alla giunta in carica, se non qualche nome di leader e mai una idea di Roma, un progetto visibile e condivisibile di città.

L’indagine impietosa di Fabrizio Barca sul Pd romano ha mostrato a quale grado erano giunti tanti circoli di quel partito. Ebbene, Marino non solo non ha più attorno a sé un partito di massa ma non poteva contare neppure su «quel» Pd che gli era significativamente ostile. Molte delle opposizioni che oggi convergono contro il sindaco andrebbero in verità esaminate nelle loro segrete e innominabili motivazioni. Perché non bisogna dimenticare che il più potente dei poteri romani, accanto a quello del Vaticano, è stato quello dei costruttori. In subordine e spesso legato ai primi due, quello della più opaca macchina amministrativa d’Italia.

Oggi tali poteri vengono colpiti e sono in difficoltà. È su questi obiettivi che bisognerebbe richiamare l’attenzione dei romani e degli italiani, oltre che sul traffico soffocante e la sporcizia delle strade.

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