In Valori (edito da Sellerio), ultimo romanzo di Clara Usón – una delle migliori scrittrici spagnole che ha avuto un grande successo anche in Italia con La figlia, tradotto in tutta Europa e imperniato sul suicidio di Ana, figlia del generale serbo Mladic – una donna, direttrice di banca coinvolta in una delle tante truffe ai danni dei risparmiatori, intreccia il suo destino con quello del capitano Fermín Galán, protagonista nel 1930 di una rivolta a favore della Repubblica, con le crudeli stragi degli Ustascia durante la Seconda guerra mondiale; infine con l’esistenza di un gigolò per caso, disposto a tutto pur di sfuggire alla legge. Un’opera solida e raffinata, dalla struttura complessa, in cui si incrociano diversi piani temporali e che testimonia dell’ottima salute di cui gode oggi la narrativa spagnola. Abbiamo fatto qualche domanda all’autrice, in vista della sua partecipazione al festival internazionale di Taormina, Taobuk, dove parlerà il 14 settembre (ore 18) al Grand Hotel Timeo.

Oltre a essere il titolo del suo ultimo libro, «Valori» è una parola che ha varie accezioni: da una parte quelli morali e personali dell’individuo, le sue qualità, il suo coraggio; dall’altra la quantificazione economica di oggetti e persone. Come si coniuga questo termine all’interno dei tre scenari del romanzo?

In effetti, «valore» è una parola che implica molti usi e ha diversi significati: coraggio, prezzo, merito, qualità o principi morali, e c’è chi rischia la vita per i propri principi o ideali, chi invece li vende al miglior offerente, ma il romanzo non è, naturalmente, uno studio sulla polisemia del termine «valore». Come scrittrice, mi interessano le vicende che riflettono i conflitti della natura umana, le nostre contraddizioni: nelle tre storie che si mescolano nel romanzo, ci sono personaggi che la vita mette alla prova in circostanze in cui devono dimostrare il proprio valore, nel senso di coraggio, audacia, o, al contrario, la propria viltà. Ciascuna storia si svolge in un’epoca governata dal valore, come principio etico o morale differente: gli ideali rivoluzionari, il dogma religioso e il valore assoluto del XXI secolo: il guadagno, il denaro.

La critica ha definito alcune sue opere come «romanzi politici». In «Valori», però, introduce forti elementi di novità: storia e politica diventano voci narranti, attraverso protagonisti che non solo coesistono nel presente della narrazione, ma ne prendono possesso…

Borges diceva che «esiste solo la buona o la cattiva letteratura». «Letteratura impegnata» è un po’ come dire «Equitazione protestante». Sottoscrivo: non so cosa sia la letteratura politica e non mi sono mai proposta di farla, per cui questa etichetta applicata ai miei romanzi mi crea disagio. Ma è vero che i miei due ultimi romanzi sono un ibrido tra realtà e finzione, in cui appaiono personaggi storici e si affrontano episodi che hanno senz’altro una connotazione politica. Ma non si tratta di politica! Jane Austen venne criticata perché, vivendo in un periodo convulso della storia europea, non vi accennò neppure; i suoi romanzi riflettono un mondo statico, tranquillo e chiuso. Tuttavia, questa deliberata omissione presuppone già una scelta politica. Credo che la letteratura impegnata sia destinata al fallimento, lo scrittore non deve predicare, quando lo fa diventa un panflettista, succede perfino ai più grandi, come Tolstoj. Il potere della finzione come leva del cambiamento è minimo. Chi vuole cambiare il mondo, farà meglio a scrivere Il Capitale, Mein Kampf, la Bibbia o il Corano. A me interessa indagare i conflitti della natura umana, ciò che Faulkner definì «la contraddizione tra il cuore umano e se stesso», ed è in circostanze estreme, come la rivoluzione, la guerra o la crisi economica, che affiorano con maggior violenza questi conflitti e contraddizioni.

Clara Usón (foto di Elena Blanco)

Nel romanzo si racconta, attraverso la voce di un prete croato, il nazionalismo ustascia, che negli anni ’40 perseguitò crudelmente serbi, zingari ed ebrei, anche e soprattutto in nome della religione. È qualcosa che riguarda anche il presente e gli integralismi cui assistiamo?

Il dogma è un’astrazione della quale ho cominciato a occuparmi durante le ricerche per il mio romanzo La figlia; la verità indiscutibile, assoluta, che va imposta anche con la violenza. E il dogma per antonomasia è quello religioso, o lo è da quando esiste il monoteismo. Le stragi dello Stato islamico, il fanatismo della jihad ci sembrano qualcosa di anacronistico e medioevale, che l’Occidente ha superato da tempo. E tuttavia durante la Seconda guerra mondiale, nello stato indipendente di Croazia, il cui leader era il fascista ultracattolico Ane Pavelic, il cattolicesimo fu imposto con le armi e un frate francescano diresse un campo di concentramento. I nazisti croati, gli ustascia, erano così barbari e crudeli che perfino i militari tedeschi e la Gestapo protestarono per i loro eccessi. Questo episodio oscuro della storia europea e della chiesa cattolica è però quasi sconosciuto. Negare il passato è un errore che si paga carissimo, ne sappiamo qualcosa in Spagna, dove la memoria storica è ancora un tabù. Il nazionalismo di Milosevic si è alimentato con le braci mai spente dell’orrore ustascia e del massacro dei cristiani ortodossi.

Si parla molto, soprattutto in paesi come la Spagna, l’Italia e la Grecia, di «letteratura della crisi». Secondo lei, esiste davvero?

Lascio agli studiosi e ai critici il compito di chiarire se esista o meno una «letteratura della crisi» e quali opere ne facciano parte e che caratteristiche abbiano. Non mi riguarda, io mi limito a scrivere. Ho pensato spesso che la nostra unica scusa per continuare a pubblicare opere di autori contemporanei – dopo Dante, Shakespeare, Cervantes, Jane Austen, Flaubert, Tolstoj, Cechov, Joyce, Virginia Woolf, Proust e Kafka e tanti altri – è quella di essere vivi, contemporanei che possono testimoniare sul divenire dell’umanità dopo la morte di questi grandi genii: è l’unico vantaggio che abbiamo su di loro. I greci avevano le Erinni, noi i mercati, un’altra funesta astrazione, una divinità senza volto oppure un’Idra con molte facce. È un’ovvietà dire che il valore assoluto, il dogma, l’ideale del XXI secolo è il profitto, il denaro, e che ora il valore morale equivale a quello economico; non avere soldi è riprovevole e ti spinge ai margini del sistema, se non hai nulla non vali nulla, basta vedere con quale indifferenza assistiamo alla morte degli immigrati nel Mediterraneo o al dramma dei rifugiati. È un sistema diabolico dal quale è impossibile fuggire: vivere costa, bisogna guadagnare per meritarsi di restare vivi. Siamo tutti venditori, il valore di uno scrittore non si misura in base alla qualità della sua opera, ma rispetto la sua capacità commerciale. La paura di perdere il lavoro ci rende vili: chi si azzarda a contrariare il capo, o a contestare l’etica dell’impresa che gli dà da mangiare? Un esempio paradigmatico è lo scandalo Volkswagen. Per me la cosa più rilevante non è stata tanto la truffa, quanto che questa sia stata escogitata e messa in atto da impiegati fedeli, non nel proprio interesse, ma con l’obiettivo di far guadagnare di più i padroni, gli azionisti.
In Valori, Mati è la direttrice di una succursale bancaria, un’impiegata esemplare. Ha venduto azioni preferenziali perfino a sua madre, è un esempio perfetto di vittima-carnefice, complice e coautrice involontaria o obbligata di un enorme furto. Si è ormai, infatti, verificato un fenomeno nuovo, perverso: il salariato si è imbevuto della mentalità del padrone, è diventato il padrone spietato di se stesso: fatturare di più a beneficio dell’impresa è l’unica mèta. È quello che intendo mettere in luce nel mio romanzo: non tanto redigere una cronaca della crisi economica, quanto far affiorare il cambiamento di valori e di mentalità: sono mutamenti che mi spaventano a morte.