Il desiderio di vendetta sembra prosperare attorno a noi. La sua presenza segnala uno scollamento tra senso di giustizia e senso di legalità. Esso svolge una funzione importante di riequilibrio psichico quando il danno subito a causa di una sopraffazione assume il significato di una ferita grave dell’amor proprio, mette chi ne fa le spese in una posizione subalterna, di sottomissione. Più la ferita appare grave, duratura e irreparabile, più la gestione del desiderio di vendetta diventa difficile e può portare a un senso di impotenza invincibile e a uno sbocco finale potenzialmente molto distruttivo.

Coltivare fantasie di vendetta aiuta a riparare internamente il senso di giustizia, a creare uno spazio intermedio tra la reazione cieca e l’impotenza. Serve a mettere in gioco l’immaginazione e dispositivi di azione simbolici, creativi che trasformano la concretezza dell’affronto subito in una visione superiore, più intelligente e eticamente nobile, delle miserie del mondo.

Quando nella propria esperienza personale le ferite narcisistiche sono profonde e molto precoci, la capacità di gestire i sentimenti di vendetta nel senso della costruzione di un’idea equilibrata della giustizia è molto ridotta. Il soggetto menomato nell’amor proprio vede nell’ingiustizia l’unico parametro affidabile per la definizione della propria posizione nel mondo e nella componente normativa, arbitraria presente in ogni legge l’unica vera autorità a cui fare riferimento. Con questa autorità, che combatte disperatamente, il soggetto si identifica segretamente alla ricerca di una rivincita, radicalmente illusoria e fuorviante, che domina prepotentemente il suo mondo interno.

Nella direzione opposta ci vuole grande sanità psichica per reagire in modo liberatorio a una sopraffazione intollerabile, che umilia gravemente il proprio modo di essere, e trasformare la subalternità in una grande rivalsa non solo per se stessi ma anche per l’interesse di tutti. Di questa sanità, che è capacità etica, ha dato prova, in tempi recenti, Nelson Mandela. In lui il desiderio legittimo di vendetta ha preso la strada non del perdono, cancellazione del debito, che mette il soggetto perdonante in una posizione di superiorità permanente, ma della scusa (sig nomi). L’andare oltre il rancore, scusando l’aggressore- senza levargli il biasimo, che tocca a lui superare- perché siamo tutti esseri umani capaci di sbagliare in modi terribili e ci riconosciamo in questo. Questa posizione non la si può raggiungere senza la spinta a vendicarsi e neppure senza la successiva trasformazione di questa spinta in senso della misura che contempla attraverso la misurazione del danno dell’altro, vendicatore/riparatore del nostro, il danno comune.

Sul senso della misura si è costituito il senso etico della Polis come amministratrice della giustizia. Ogni eccesso nell’ambito della comune convivenza più che come «moralmente» (convenzionalmente) esecrabile, deve essere sanzionato come hubris: la crescita rigogliosa e senza limiti di una pianta che opprime con la propria autoreferenzialità la crescita delle altre.

La Polis, attraverso l’hubris si appropria della vendetta, sovradaterminandola come punizione della mancanza del senso della misura, e si sostituisce alla forza divina. La punizione è esemplare: sanziona il colpevole e al tempo stesso agisce come esempio e ammonizione per tutti. Riconosce il diritto alla riabilitazione, ma segue il principio della non ripetibilità dell’hubris. La sanzione dell’autoreferenzialità irrispettosa degli altri, trasforma la vendetta in processo collettivo catartico di elaborazione del danno.