Dopo mesi di silenzio imposto, Donald Trump ha annunciato una class action contro Twitter, Google, Facebook e i loro amministratori delegati, per essere stato bandito dalle piattaforme social dopo l’attacco del 6 gennaio al Campidoglio.

«Sono qui davanti a voi ad annunciare uno sviluppo molto importante per la nostra libertà di parola – ha detto Trump dal suo golf club di Bedminster, in New Jersey – In collaborazione con l’America First Policy Institute, sto presentando come rappresentante principale dell’azione collettiva un’importante azione legale contro i grandi giganti della tecnologia. Non c’è prova migliore che loro siano fuori controllo del fatto che abbiano bandito il presidente in carica degli Stati uniti all’inizio di quest’anno. Se possono farlo a me, possono farlo a chiunque».

Il punto sarebbe proprio questo: a inizio anno Twitter, YouTube (di proprietà di Google) e Facebook avevano bandito Trump dalle proprie piattaforme a causa delle affermazioni false sui brogli elettorali che avevano poi contribuito al tentativo di rovesciare l’elezione di Biden. Bandire il presidente è stata un’azione dimostrativa per mostrare che chiunque tenti di rovesciare la democrazia può essere messo al bando.

The Donald ha definito il post che lo ha fatto cacciare da Twitter «una frase amorevole». Per Twitter, invece, i tweet che hanno portato al divieto di Trump per «glorificazione della violenza» risalgono all’8 gennaio, due giorni dopo i disordini a Washington.

Proprio mentre Trump teneva la conferenza stampa, come in un’azione coordinata, gli alleati repubblicani dell’ex presidente al Congresso hanno pubblicato un promemoria che descrive il loro piano «per affrontare la Big Tech».

Il piano prevede misure antitrust per «spezzare» le società e un rinnovamento di una legge nota come Sezione 230, che Trump aveva cercato di abrogare quando era presidente: essenzialmente impedisce a società come Facebook e Twitter di essere responsabili per quello che gli utenti pubblicano e dà alle aziende lo status di «piattaforma» invece che di «editore».