Un tribunale birmano ha condannato a due anni e mezzo di prigione e lavori forzati i tre gestori di un bar di Yangon, la più grande città del paese. Phil Blackwood, barista neozelandese, e due suoi colleghi birmani, Htut Ko Ko Lwin e Tun Thurein, sono stati condannati per vilipendio alla religione, a causa di un volantino pubblicato su Facebook per promuovere una serata del loro locale, il VGastro Bar.

 

Phil Blackwood in tribunale con la locandina incriminata
Phil Blackwood in tribunale con la locandina incriminata

 

Il volantino raffigurava una testa di Buddha con cuffie da dj in colori psichedelici. L’immagine ha scatenato l’ira di molti commentatori su Facebook, il social media che per molti birmani è sinonimo di Internet tout court; i gestori l’hanno quindi rimossa, chiedendo scusa pubblicamente sulla loro pagina. Ma di fronte al locale si era già formato un assembramento di persone, tra cui alcuni monaci dell’Associazione per la protezione della razza e della religione, o ma-ba-tha.

Integralismo buddista e nazionalismo sono movimenti in forte crescita in reazione alla recente apertura politica ed economica del Myanmar, paese su cui il mondo ha puntato gli occhi da quando, nel 2010, i militari – al potere in forma diretta o indiretta dal 1962 – hanno concesso elezioni e in seguito approvato la formazione di un governo semi-civile che si è dimostrato riformatore in più momenti, ad esempio liberando centinaia di prigionieri politici, oltre che riducendo il controllo della censura e concedendo più libertà d’espressione.

L’ondata di ottimismo internazionale, sancita dal ritiro delle sanzioni da parte dell’Unione europea e degli Stati uniti nel 2013, si sta però esaurendo, mentre tra la popolazione locale crescono preoccupazioni e tensioni in vista delle prossime elezioni politiche previste per novembre.

Ben settantuno partiti si sono già registrati per concorrere alle elezioni, anche se la grande sfida sarà giocata tra l’Usdp, il partito che rappresenta il volere dei militari, e l’Nld, o Lega Nazionale per la Democrazia, il principale partito di opposizione simbolicamente rappresentato dall’icona del movimento democratico Aung San Suu Kyi. Simbolicamente, perché la costituzione non le permette di candidarsi alla presidenza del paese, a causa dei propri legami familiari con persone di nazionalità straniera (i suoi figli hanno nazionalità britannica).

Il Myanmar sta affrontando numerose sfide nel suo cammino verso la democrazia, cui la popolazione inneggia a gran forza nelle manifestazioni che in questi anni vengono finalmente autorizzate. Il paese è tuttora attraversato da violenti conflitti tra l’esercito centrale birmano e alcune minoranze etniche, tra la maggioranza buddista e la minoranza musulmana, oltre che dall’impresa di assorbire l’investimento straniero che sta provocando problemi legati all’esproprio di terre, ai diritti dei lavoratori, ai rischi per l’ambiente.

Strategicamente localizzato tra Cina e India, il Myanmar offre sbocco sul mare, ampie risorse naturali, manodopera a basso costo e quasi sessanta milioni di potenziali consumatori. Le imprese italiane sono ancora poco presenti nel paese, ma dal 2014 è arrivata Eni con due pozzi esplorativi on-shore e in gara per l’esplorazione di pozzi off-shore.

L’arrivo del capitalismo sta inevitabilmente innescando una serie di shock culturali e processuali in un paese che è stato isolato dal resto del mondo per quasi cinquant’anni, controllato da un regime socialista autarchico per ventisei anni, e in seguito, sul punto del tracollo economico, apertosi all’investimento straniero (in particolare cinese, ma anche thailandese, indiano, sud-coreano e di Singapore) per poter continuare a foraggiare la costosa macchina militare. Di fronte alla crescente sfiducia popolare, secondo molti osservatori e cittadini comuni il governo sta facendo passi indietro e lo dimostrerebbero numerosi avvenimenti recenti.

Nonostante si sia giunti al settimo turno di dibattimenti per il raggiungimento della pace tramite un cessate il fuoco nazionale, nel nord del paese la guerra civile continua. Nello stato Kachin, l’esercito birmano ha rotto il cessate il fuoco per riprendere il controllo dei territori ricchi di risorse energetiche gestiti dall’esercito indipendente Kachin e, dal 2011, non si è ancora trovato un accordo.

Nel confinante stato Shan, da poco più di un mese l’esercito birmano è impegnato in un’offensiva contro i ribelli Kokang, che combattono per mantenere la loro indipendenza come milizia e il controllo su un territorio molto lucrativo per il traffico di oppio e metanfetamine. All’interno di queste operazioni, un aereo birmano ha sganciato delle bombe in territorio cinese uccidendo quattro persone. La Cina ha condannato l’azione, ma per via del forte legame economico tra i due paesi non si è spinta oltre, con grande disappunto della sua cittadinanza.

Nella parte di paese che vive in condizioni di pace, la società civile e i partiti politici sono impegnati nel complesso percorso di costruzione e negoziazione del processo democratico. Dallo scorso novembre un movimento studentesco di protesta ha attraversato il paese in una lunga marcia non autorizzata che si è arrestata alle porte di Yangon per lasciare spazio alle trattative cl parlamento. Gli studenti contestano la Legge Nazionale per l’Educazione, che limiterebbe la libertà accademica.

La protesta è stata repressa con la violenza dalla polizia, ricordando a molti gli avvenimenti del 1988, quando migliaia di studenti e manifestanti vennero uccisi dall’esercito in uno dei momenti più tragici della storia birmana contemporanea. La polizia impiegata nell’operazione è stata addestrata dall’Unione Europea, che in seguito all’episodio ha dichiarato la necessità di ulteriori interventi collaborativi. Circa centoventi persone sono state arrestate, tra studenti e giornalisti.
È sulla paura che punta la ma-ba-tha, protagonista della campagna contro i tre gestori del bar condannati. L’associazione è vicina a U Wirathu, leader molto popolare del movimento nazionalista 969, salito alla ribalta delle cronache per esser stato definito dal Time «il volto del terrore buddista» e più recentemente per aver chiamato «puttana» Yanghee Lee, l’inviata speciale dell’Onu per i diritti umani in Myanmar.

L’antagonista principale del movimento nazionalista è la comunità musulmana, stimata al 5 per cento della popolazione, contro il 90 per cento buddista. A maggio l’Onu pubblicherà i risultati del primo censimento nazionale svolto in trent’anni, pronto a infiammare ulteriormente lo scenario già fragile.

Più di 240 persone sono morte in conflitti tra buddisti e musulmani, e a centinaia di migliaia sono rimasti senza abitazione e lavoro.

Un processo di secolarizzazione è iniziato, ma la religione buddista mantiene una grande influenza politica in Myanmar, in particolare per il suo ascendente sulla popolazione, specialmente importante in vista del voto di quest’anno. I generali si sono serviti a lungo degli apparati religiosi per mantenere il controllo sul paese e, sebbene molti monaci siano attivamente impegnati nel processo di democratizzazione, gli ultimi eventi sembrano indicare che è la fazione fondamentalista ad avere la maggiore influenza sul paese.