Nel 1973 i visitatori della galleria d’arte romana «La Salita» si trovarono di fronte una singolare installazione: a un tavolo fratino, sul quale era disposto il calco sezionato di una statua maschile antica, sedeva un uomo con il volto coperto da una maschera (ancora un calco, tratto da una testa di Apollo di età classica), mentre alla sua destra un flautista eseguiva un brano di Mozart. Un corvo impagliato appollaiato sul tronco della statua completava la scena.
L’uomo con la maschera era Jannis Kounellis, all’epoca tra i nomi di maggior spicco della cosiddetta Arte Povera. L’artista greco, che a vent’anni aveva scelto l’Italia come sua seconda patria, condivideva con altri esponenti della corrente così battezzata da Germano Celant l’attenzione per i materiali non pregiati, per gli oggetti di uso comune, ma non li usava certo alla maniera stigmatizzata da Picasso: «certi artisti svaligiano il magazzino di Duchamp limitandosi a cambiare gli imballaggi». Anche quando impiegava dei ready-made, Kounellis si preoccupava di riaffermare il valore del fare, dell’azione creativa, e al tempo stesso mirava al recupero dell’archetipo. L’Apollo (ma l’installazione era senza titolo) del 1973, replicato successivamente in altre sedi, esemplifica un atteggiamento che attraversa tutta la sua opera: la ricerca di una grammatica espressiva rigorosa, di regole affidabili. Non uno sperimentalismo avanguardista fine a se stesso, ma quasi il bisogno di un ‘ritorno all’ordine’. E come per la generazione di Valori Plastici, la chiave fu per lui quella Grecia che mai aveva lasciato, né con il cuore né con la mente. In un’intervista del 1985 Kounellis affermò che gli artisti sono «in rapporto permanente con l’antichità» e che «il tentativo di rompere con questa tradizione non significa che non se ne faccia parte, al contrario, questo tentativo dipende dall’antichità».
Ricezione del classico vuol dire per Kounellis innanzi tutto affidarsi a Mnemosyne, percorrere i labirinti di una memoria di forme e suggestioni. Il passato riaffiora nel presente, lo abita. Qui l’artista scompone simbolicamente l’antico in segmenti, altrettanti morfemi di una lingua morta che tornano a farsi significanti per rendere il senso di qualcosa di acquisito per sempre (ktema es aiei, avrebbe il suo compatriota Tucidide).
Del resto, perfino l’iconoclasta Marinetti riconobbe – correggendo a distanza di vent’anni i bellicosi programmi del Manifesto del Futurismo – che il passato, «ben intuito e accettato frammentariamente», è in grado di «consigliare e dirigere il ribollente oggi e insegnarci a domare l’impetuoso domani che si avventa contro di noi». E frammenti di marmi antichi tornano spesso nel lavoro di Kounellis, per esempio nella porta murata riempita di calchi di sculture classiche (Senza titolo, 1980) e nello studio per Senza l’antica prospettiva (2013), dove spezzoni di colonne e rovine varie sono legati fra loro da una sorta di filo di Arianna che deve fare ritrovare la strada.
Si avverte in Kounellis l’urgenza di (ri)entrare in sintonia con il classico, di farsene non semplice spettatore ma attore, di avventurarsi in esso proiettandosi in una dimensione temporale altra, perché come sempre i classici non sono nostri contemporanei se non nella misura in cui, non senza sforzo, noi ci facciamo tali. Kounellis è dunque ben lontano dal citazionismo rassicurante di certi artisti neo-neoclassicisti, come Francesco Vezzoli. Il suo assomiglia più a un percorso iniziatico, che porta l’artista ad assumere attraverso la maschera lo statuto di Doppelgänger (letteralmente ‘doppio viandante’), a farsi cioè tutt’uno con la divinità oracolare.
E tuttavia, per quanto posto sotto il segno di Apollo, l’approccio di Kounellis all’antico rivela altresì una forte componente dionisiaca. Il dio, resecato e smembrato, è destinato a risorgere, come Dioniso nella versione orfica del mito. Il flautista che esegue Mozart tiene trasparentemente il luogo di Orfeo, e il corvo , che simboleggia antagonisticamente la morte, cederà anche lui al potere della musica. La dicotomia nietzschiana trova dunque in Kounellis una ricomposizione che trasfonde una speranza nella precarietà esistenziale dell’oggi.
Anouilh (uno che di ricezione del classico si intendeva) fa inveire la sua Antigone contro la ‘sporca speranza’. E torna prepotentemente alla mente quel passo davanti a un’opera di Kounellis (Senza titolo, 1978) che consiste nel calco di una testa femminile antica con la guancia destra sporca di nero e una benda viola sugli occhi: quasi a significare che, benché offuscata e sconciata, la classicità per Kounellis ci è sempre di sostegno e di guida, ci fa vedere oltre, schiudendoci le porte di universi alternativi.
Per lui, ierofante di un culto misterico, classico è ciò che, anche se contaminato o dissacrato, consente di esplorare il territorio del mito, e per mezzo di questo di sondare la nostra stessa umanità.
Ha scritto Adorno che nessuna tradizione è da resuscitare forzatamente, ma quando ogni tradizione è spenta «la marcia verso la disumanità è iniziata». Gli ha fatto eco J. M. Coetzee: «Ciò che sopravvive alla peggiore barbarie, sopravvive perché generazioni di individui non riescono a farne a meno e perciò vi si aggrappano con tutte le forze. Questo è il classico».