Nulla assomiglia alla nostra anima più del vetro, scrive Han Kang nel suo secondo romanzo, pubblicato nel 2014. Una materia compatta e trasparente, che si rende visibile solo quando si rompe, senza rimedio. Visibile e tagliente. Se La vegetariana, il libro che ha reso famosa la scrittrice coreana, è una storia che si svolge tutta all’interno di un soffocante interno di famiglia, in Atti umani (Adelphi, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, pp.205, euro 19,00) il respiro narrativo si fa epico, coinvolge un’intera città nel punto più dolente della sua storia, richiede l’evocazione di molti personaggi e di differenti piani temporali, via via che i fatti mostruosi accaduti in un passato ormai lontano si trasformano in memoria, in verità. Ma a interrogare con più attenzione questi due bellissimi romanzi, dovremo arrenderci a un’ulteriore, meno superficiale evidenza.

Il mondo prevalentemente psichico della Vegetariana e quello prevalentemente storico di Atti umani non sono così facilmente distinguibili nel senso che ci imporrebbe un semplice riassunto dei due libri. Per una scrittrice come Han Kang, una storia non è semplicemente ciò che essa racconta, con la sua particolare verosimiglianza, i suoi snodi, i suoi dettagli, i protagonisti e i testimoni secondari. Questo livello apparente della narrazione è certamente necessario, nessuno potrebbe metterlo in dubbio.

Tra violenza e coscienza di sé
I romanzi esistono perché noi stiamo al mondo, e la loro efficacia dipende in buona parte dal fatto che qualcosa, nella loro trama, si rende umanamente riconoscibile alla nostra memoria, all’esperienza concreta che abbiamo delle cose. Possiamo usare degli animali o delle figure geometriche al posto degli esseri umani, tutto è stato fatto e tutto si può ancora tentare, ma sempre e comunque si tratterà di maschere dell’essere umano.

Anche se il significato decisivo di un romanzo è l’assurdità della vita, anche là dove la psicologia si riduce alla coazione a ripetere e l’orizzonte ultimo è la pulsione di morte, è una specie di paradossale assurdità condivisa quella che distingue l’arte narrativa dai sentimenti informi che affliggono e governano la nostra esistenza. Han Kang lo sa benissimo, e sarebbe l’ultima a negare queste elementari leggi artigianali. Eppure, è come se con la punta estrema, con la parte più sottile e più affilata del suo talento artistico, giungesse a sfiorare una riserva di inesprimibile che sembra appartenere, più che al romanzo, alla sfera della poesia, della meditazione filosofica, dell’intuizione mistica. Non saprei come altrimenti accennare nella direzione di questo cuore pulsante e irrudicibile di ogni vicenda, di ogni trama possibile, se non parlando di violenza, e della relazione che unisce la violenza allo strato più intimo della coscienza di sé.

Riprendiamoli in mano, allora, i riassunti dei due libri della scrittrice coreana, con quella particolare emozione cognitiva che si prova quando ci rendiamo conto della profonda identità di cose che avevamo ritenuto diverse se non addirittura inconciliabili. Nella Vegetariana, la protagonista è una donna normalissima, che sembra avere accettato la vita così com’è, fin quando un sogno la induce a un’implacabile decostruzione della sua intera esistenza. La ribellione alimentare è solo l’inizio di un processo di metamorfosi che procede in direzione di una sconcertante condizione vegetale. È importante il fatto che mai, nel corso di questo indimenticabile romanzo, Han Kang ci metta in grado anche solo di sfiorare il punto di vista del suo personaggio. La prospettiva iniziale è quella del rozzo, insensibile marito, poi tocca al cognato e infine alla sorella. È una specie di coro in miniatura; ma a differenza del classico coro tragico, non esprime nessuna forma di comprensione dell’accadere. Il variare dei punti di vista è un falso movimento, e ogni racconto, pur prendendo le mosse da presupposti psicologici totalmente diversi, tocca prima o poi un identico limite: l’inadeguatezza. Chiuso il libro, turbati e meravigliati dobbiamo arrenderci alla forza poetica dell’invenzione, senza chiederle di rassicurarci e di chiarirsi in qualche modo.

Yeong-hye, la «vegetariana», la donna che voleva diventare un albero, è un simbolo perfetto dell’esistenza, dell’umano. Come ogni simbolo efficace, è opaco, irriducibile allo stesso racconto che vorrebbe imprigionarlo nel suo modello di senso.
In Atti umani, Han Kang si conferma una maestra assoluta nell’arte della rifrazione narrativa. Tali sono la coerenza della sua visione e la padronanza artistica dei mezzi, che il passaggio da una vicenda individuale a un tremendo evento storico lontano nel tempo appare come una transizione più facile di quello che si potrebbe pensare. Il massacro di Gwanju, nel maggio del 1980, e il colpo di stato del «macellaio» Chun Doo-hwan sono fatti reali, ma talmente remoti dalla memoria di un lettore occidentale da presentarsi alla sua imaginazione del tutto privi di una concreta e circostanziabile riconoscibilità.

Raccapriccio e fatalismo
L’umano, che Han Kang insegue con la sua prosa implacabile, a colpi di dettagli illuminanti, ci si squaderna davanti in tutto il suo inestricabile groviglio di orrore, eroismo, paura, dignità. Questa volta il filo narrativo, un sottilisimo e vibrante conduttore di energia, passa per le dita di un’intera città, senza arrestarsi di fronte alla barriera naturale tra i vivi e i morti. E forse il capitolo più potente di Atti umani è proprio quello in cui a prendere la parola è l’anima di una delle vittime, rimasta accanto al suo corpo tra centinaia di altri accastati dai militari in un bosco ai margini della città. Sono pagine indimenticabili, tra le più dolorose e potenti della letteratura di oggi.

Educata nel buddismo, che ha praticato fino a vent’anni, Han Kang non distingue mai in maniera netta il fisico dallo psichico. Il personaggio osserva il rapido decomporsi del suo corpo con una sconcertante sintesi di raccapriccio e fatalismo. Vorrebbe abbandonare se stesso come un serpente che cambia pelle, troncare la forza pura, «sottile e tesa come una ragnatela», che emana dal disfacimento delle sue membra. Volare in cerca dei suoi cari, o anche dei suoi assassini. Ma non può, le cose non sono così semplici, e l’ultimo lampo lancinante di consapevolezza di Jeong-dae – uno studente ucciso durante le prime ore della carneficina – si ripercuote su tutti gli altri racconti, trasformando tutta la città in un luogo dove il passato e il presente, la vita e la morte, si fronteggiano come due spettri, non smettono di contaminarsi.

Da una commemorazione all’altra
C’è anche posto per Han Kang, nel libro, che a Gwanju è nata nel 1970, e della carneficina ha cominciato a sapere qualcosa dalle mezze frasi degli adulti, quando la sua famiglia si era trasferita a Seul. Intitolato «La scrittrice», l’ultimo capitolo è tutto meno che una tranquilla appendice, una specie di postfazione scritta a cose fatte, come se scrivere equivalesse a una specie di purificazione, e i conti con i propri fantasmi potessero una buona volta essere chiusi. Semmai, la sensazione che ci dà l’ultimo capitolo è di qualcuno che cade nella stessa buca che ha scavato: circostanza che lascia ammirati sia dal profilo artistico che da quello morale (che sono, in realtà, la stessa identica cosa).
Iniziato con il lume delle candele accese accanto ai cadaveri durante la carneficina del 1980, il libro finisce nel 2013, quando Han Kang, tornata a Gwanju, accende delle nuove candele sulla tomba di tre delle innumerevoli vittime, in un cimitero coperto dalla neve. Ruotando intorno allo stesso nucleo inesprimibile, il racconto acquista la sua forma naturale, l’unica possibile, che è quella di un circolo. E se il mondo è pieno di candele, sembra suggerirci Han Kang, una sola è la fiamma che sprigionano, tremula nel vento «come l’ala traslucida di un uccello».