È scoppiata a piangere Graça Machel, la vedova di Nelson Mandela, dopo aver pronunciato un discorso toccante durante la cerimonia commemorativa per Manuel Jossias, ragazzo di origini mozambicane, vittima di uno dei tanti attacchi xenofobi che stanno scuotendo nuovamente il Sudafrica.

«Mi rivolgo a voi come una madre africana addolorata. Perché i miei figli, africani del Sudafrica e del Mozambico si stanno facendo del male a vicenda» ha detto Machel. L’odio razziale è «espressione dell’odio verso se stessi che è stato inculcato dal sistema dell’apartheid» e l’omicidio di Jossias è «un simbolo di ciò che non deve accadere di nuovo» ma – ha continuato l’ex first lady del Sudafrica – che è destinato a ripetersi se i governi dell’intera regione non adottano misure tali da garantire migliori opportunità economiche ai propri cittadini: «Questi attacchi hanno soprattutto ragioni economiche e dobbiamo riconoscere perché molte persone vengono in Sudafrica e che ci sono sudafricani alla ricerca di opportunità di lavoro in altri paesi».

Ricordando le sue origini mozambicane (Graca Machel è la vedova, prima ancora di Nelson Mandela, di Samora Machel, il primo presidente del Mozambico indipendente morto in un incidente aereo nel 1986) si è definita «il volto più visibile di uno straniero in Sudafrica. Voglio che sia chiaro, non l’ho mai rivendicato, ma voglio farlo ora. Io sono sudafricana, sono mozambicana. Appartengo a ogni nazione d’Africa, in particolare all’Africa del sud. La migrazione è nel nostro sangue! I confini sono stati creati dai colonizzatori. Non significano nulla per noi perché siamo una sola cosa». La cerimonia funebre si è tenuta nella baraccopoli di Alexandra alla presenza, tra gli altri, del sindaco di Johannesburg Parks Tau e dell’ambasciatore mozambicano Fernando Fazenda. Manuel Jossias, noto anche sotto falso nome come Emmanuel Sithole, (nome adottato, come ha confermato il presidente sudafricano Jacob Zuma, per sfuggire alle autorità quale immigrato clandestino) è stato ucciso a coltellate nella township di Alexandra il 18 aprile scorso davanti agli occhi dei passanti e all’obiettivo del fotogiornalista sudafricano James Oatway che ne ha divulgato le immagini sui media.

La scorsa settimana si è tenuta la prima udienza in tribunale per quattro sospetti ritenuti responsabili della sua morte.

Gli attacchi contro gli immigrati sono cominciati più di un mese fa nelle township intorno a Durban fino ad arrivare a Johannesburg (7 le vittime solo nell’ultimo mese).

«In 21 anni di democrazia, la promessa di libertà non ha dato frutti», ha sostenuto recentemente Stanley Henkeman, a capo dell’Institute for Justice and Reconciliation’s (Ijr) Building an Inclusive Society programme:

«Tutte le sfide del passato sono tornate a perseguitarci perché tutto quello che abbiamo fatto è rimuovere le strutture del regime dell’apartheid, ma non ci siamo occupati dell’anima di questo paese».

Parole a cui hanno fatto eco le dichiarazioni di Jeremy Cronin – vice ministro dei lavori pubblici e membro del Comitato Esecutivo Nazionale dell’African National Congress (Anc) – che parlando in qualità di vice segretario generale del South African Communist Party (Sacp) ha dichiarato: «Abbiamo a che fare con i fantasmi di un passato che non è mai veramente stato trasformato. La nostra gente è arrabbiata e frustrata perché in 21 anni di democrazia non molto è cambiato».