Il 17 gennaio scorso in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, giorno dedicato nella tradizione agricola alla benedizione degli animali e delle stalle, la Coldiretti ha rinnovato la sua preoccupazione per la continua diminuzione del numero di animali allevati. Nel nostro Paese, secondo l’organizzazione sindacale agricola, dal 2008 a oggi sono scomparsi, solo tra gli animali più grandi, circa un milione di pecore e capre, oltre a 600 mila maiali e più di 100 mila bovini e bufale. Un addio che ha riguardato soprattutto la montagna e le aree interne più difficili, dove mancano condizioni economiche e sociali minime per garantire la permanenza di pastori e allevatori. A tutto questo va aggiunta anche la crescente perdita di razze un tempo molto diffuse nelle campagne che mette a rischio la straordinaria biodiversità presente nelle varie regioni italiane. Analogo allarme, ma su scala mondiale, arriva anche dalla Fao: delle 8.800 razze di bestiame conosciute, il 7 per cento è estinto, il 24 per cento è a rischio di estinzione e il 59 per cento è classificato come a rischio sconosciuto a causa della mancanza di dati.

«È difficile dire di quanto si è ridotto negli ultimi cinquant’anni il numero di razze che compongono il nostro patrimonio zootecnico», afferma Riccardo Fortina del Dipartimento di scienze agrarie, forestali e alimentari dell’Università di Torino e Presidente onorario di Rare-Associazione italiana per la tutela delle razze autoctone a rischio di estinzione, «anche perché il concetto stesso di razza non è molto ben definito. Si può supporre però che un terzo delle razze o popolazioni censite a metà del secolo scorso siano definitivamente scomparse e altrettante siano a forte rischio di estinzione». Le cause principali di questa riduzione è da imputare prevalentemente alla loro sostituzione con quelle più produttive o più prolifiche, ma anche a seguito dell’incrocio con altre. I suini e gli asini sono le specie animali che hanno maggiormente risentito della riduzione del numero di razze allevate fino a giungere, per alcune di loro, vicine all’estinzione. «Nel caso dei suini, a inizio Novecento erano censite», racconta Fortina, «una ventina di razze o popolazioni; oggi sono sei. Le razze locali sono state sostituite da quelle estere meno grasse, più prolifiche e rapide nell’accrescimento. Per gli asini, invece, la storia è stata diversa. Tutte le razze italiane sopravvivono ancora, ma gli esemplari allevati sono pochissimi, per alcune di esse anche a causa del fatto che non sono più utilizzate per la produzione di muli dell’esercito, e il rischio di estinzione è sempre in agguato. Le razze suine, ma anche alcune ovine soprattutto in certe zone del Nord dove la pastorizia è definitivamente scomparsa, sono andate perdute per sempre. L’ultima in ordine di tempo è la stata la razza ovina Balestra, di cui erano stati trovati ancora una dozzina di capi in Emilia Romagna alcuni anni fa che però sono stati venduti e macellati nonostante l’offerta di acquisto da parte dell’Associazione Rare». Un danno enorme per la nostra agricoltura che ha visto diminuire non solo un patrimonio genetico, ma anche un valore ambientale in molti casi unico, «le razze animali hanno modellato molti territori rendendoli caratteristici, come i pascoli alpini e appenninici, le brughiere del nord, i tratturi del sud; ma soprattutto», ricorda Fortina, «con la loro estinzione si perdono anche i sapori originari di molti prodotti; formaggi e salumi che hanno reso famosa l’Italia sono nati dall’allevamento di razze locali, ben prima dell’avvento di quelle straniere o cosmopolite». E dal punto di vista economico? «Il valore di molte razze potrebbe non essere rilevante nel sistema economico attuale», ci tiene a dire Fortina, «ma diventarlo in un futuro diverso anche a seguito del cambiamento del gusto dei consumatori. Per esempio, l’attitudine materna o alla cova di molte razze cosmopolite di polli allevate in modo intensivo è scomparsa, ma rimane in quelle locali. Questo carattere oggi ha poco valore economico, ma potrebbe averlo in futuro se cambiassero i sistemi di allevamento. È stato così per i suini: da molto grassi, quando in passato il grasso aveva valore economico anche come combustibile, a molto magri, perché oggi il consumatore vuole carne magra. Perdere per sempre le caratteristiche peculiari di una razza è un rischio che può avere conseguenze difficili da prevedere: nel dubbio è meglio evitare l’estinzione». Restando sempre sul lato economico vi sono casi di razze che hanno rischiato di andar perdute e che invece hanno riservato agli agricoltori buoni guadagni come «la bovina Rossa Reggiana», ci tiene a precisare Fortina, «per il Parmigiano Reggiano fatto con il latte particolare di questa razza, o la Cinta Senese, razza suina antichissima oggi recuperata per produzioni di pregio, o la capra Bionda dell’Adamello, per la produzione del formaggio fatulì».

Purtroppo, per altre che non sono legate tradizionalmente a uno specifico prodotto e quindi commercialmente non competitive, siamo vicini all’estinzione; tra queste, decine di razze ovine e caprine che producono carne, un po’ di latte per formaggi a uso domestico o molto locale e un po’ di lana. «Ma la competizione», ci tiene a precisare Fortina, «non si deve giocare solo sul valore economico e commerciale: l’allevamento di molte razze locali non specializzate implica tecniche che richiedono la presenza dell’uomo e ciò è, per esempio, garanzia di vigilanza, tutela e cura del territorio. È soprattutto per queste bisognerebbe rafforzare l’aiuto pubblico». Tutte le regioni hanno recepito le direttive europee per la salvaguardia delle razze a rischio di estinzione, ma «solo alcune, come per esempio l’Emilia-Romagna, la Toscana, il Veneto, il Lazio e la Sicilia, si stanno muovendo», sottolinea Fortina», con leggi per la conservazione delle razze locali non iscritte o non ufficialmente riconosciute nei registri anagrafici nazionali o nei libri genealogici creando un repertorio regionale che completa quello nazionale. Il futuro di queste razze dipende da noi consumatori», ci tiene a ribadire il presidente onorario di Rare, «e su quanto insisteremo sull’importantissimo ruolo economico, attuale ma soprattutto futuro, ambientale, culturale e scientifico che esse rivestono. Se crediamo invece che la loro tutela dipenda solo dalla loro attuale produttività in termini quantitativi, allora credo che in pochi anni vedremo altre estinzioni. Ogni settimana si estinguono due razze nel mondo, secondo i dati Fao, ma in Europa il ritmo è fortunatamente più basso».