L’italiano dei social è indubbiamente ricco di anglismi; ciò è in parte giustificato dal fatto che l’informatica, le tecnologie di connessione e le piattaforme social arrivano tutte da un contesto anglofono. È consueto che una tecnologia o un campo del sapere esportino non solo sé stessi, ma anche il loro lessico originario. Ed è difficile trovare un sostituto italiano sintetico, per fare un esempio, di screenshot (anche se nulla vieta di creare un calco semantico come fotoschermo, un po’ come da skyscraper si fece grattacielo). Detto questo, molti forestierismi sono davvero superflui (i linguisti li chiamano «di lusso»). La soluzione? Usarli solo quando servono, verificata l’inesistenza di un corrispondente italiano. Sembra strano, ma per fare questo occorre conoscere meglio non solo la propria lingua, ma anche le altre.

La poca importanza data alla forma linguistica rispetto al contenuto è caratteristica tipica dei contesti informali. Questi, prima dell’avvento dei social, rimanevano in larga parte nascosti: avevano visibilità quasi solo i prodotti di quella minoranza che aveva voce nel dibattito pubblico, cioè intellettuali, personaggi di rilievo, scrittori, politici. La scrittura della «gente comune» si incontrava solo in occasioni circoscritte. Insomma, i social non hanno provocato decadimenti linguistici, ma ci hanno messo davanti al naso le nostre debolezze scrittorie. Come diceva Tullio De Mauro, l’italiano sta bene (e ne è dimostrazione la sua capacità di adattarsi a questo contesto comunicativo); la salute degli italiani, culturalmente parlando, desta maggiori preoccupazioni.

Le tachigrafie, ossia le scritture contratte (cmq «comunque»), gli acronimi (Fyi «for your information»), i troncamenti di parola (asp «aspetta»), l’uso della x in luogo di «per» o della k per ch fanno parte delle caratteristiche storiche della lingua dei social. Nascevano dall’esigenza pratica di dire il più possibile riducendo la spesa economica e di bit (basti ricordare la Tut, tariffa urbana a tempo), e sono stati a lungo spie linguistiche dell’appartenenza all’élite che aveva accesso alla rete. Oggi sono in regressione perché stare online non è più un privilegio, non c’è più la stessa carenza di banda di una volta e i sistemi di immissione predittiva del testo hanno «regolarizzato» la lingua digitata. Non rappresentano un vero problema, se non quando finiscono in contesti dove non dovrebbero stare, come per esempio un tema scolastico. Ricordiamo, del resto, che Giacomo Leopardi, nelle sue Lettere, scriveva 7bre, 8bre, 9bre, Xbre.

E le faccine? Un codice che serve per supplire alla mancanza di informazioni paraverbali delle nostre interazioni in rete (tono della voce, gestualità, prossemica, etc.), e in questo sono utili. Da qui a pensare che possano sostituire la scrittura alfabetica, la forma di comunicazione scritta più economica che l’uomo sia riuscito a concepire, ce ne passa. È improbabile ritornare a comunicare per pittogrammi come gli antichi egizi. Ci sarà, in fondo, un motivo se la loro scrittura si è estinta e spesso, oggi, risulta incomprensibile.

Possiamo dunque considerare la lingua dei social una varietà utile per comunicare bene in un contesto circoscritto, che come tutti i registri linguistici va saputa usare quando serve. Odiarla aprioristicamente non ha senso. Ricordiamoci che la lingua viene fatta dai suoi parlanti; noi linguisti registriamo, riflettiamo e casomai consigliamo. In altre parole: non piace una parola, una forma di comunicare? Basta non contribuire alla sua popolarizzazione, non impiegarla.

Per finire, un aneddoto. Qualche anno fa, la cantante Nina Zilli scrisse questo tweet: «Bloccata nel traffico mi sto perdendo l’#EuroBasket2015 no spoiler, che sono in Rec!!!». Una grande azienda italiana, evidentemente ignorando il significato di spoiler (negli anni Novanta si era tentato, sui newsgroup, di far passare la traduzione sciupafilm), e non chiedendosi cosa potesse dire «sono in Rec», risponde: «no problem: #CzeIta 49-64. Ottima prestazione fino a questo momento (…)»; svela, cioè, il risultato della partita in corso (Rep. Ceca-Italia), con grande divertimento di chi assiste allo scambio: chi gestisce i social della grande azienda non sa il significato di spoiler.

 

SCHEDA

Comincia oggi a Venezia, alla Fondazione Giorgio Cini, il XXXVI Seminario di Perfezionamento della Scuola per Librai Umberto e Elisabetta Mauri. Quattro giornate di approfondimento su gestione, creatività e innovazione in libreria, guardando l’Europa. L’intervento qui proposto è della sociolinguista Vera Gheno che aprirà sul tema «Parole giovani, parole dei giovani». Sono previsti poi i contributi di Livia Senic-Matuglia (Rizzoli International New York), Delphine Bouétard e Anne-Laure Vial (Librairie Ici Parigi), Hans Willem Cortenraad (CB logistics Olanda), Johnny de Falbe (Sandoe Bookstore London), Roberto Liscia (netcom), Alberto Rivolta (Feltrinelli). Nella giornata conclusiva ci sarà l’economista Lucrezia Reichlin.