La presentazione del primo Macintosh, nel 1984, al De Anza Community College di Cupertino, in California; quella del nero computer cubico per scuole, della NeXT, avvenuta quattro anni dopo all’Opera House di San Francisco. E quella, trionfale, dell’ iMac, nel 1998, ancora a San Francisco, alla Davies Simphony Hall. Sono i tre atti in cui è diviso Steve Jobs, il nuovo biopic sul co-fondatore della Apple, liberamente adattato dal librone di Walter Isaacson, e (anche se il tono è meno epico, più da camera) un film che aspira alla grande tradizione cinematografica sui geniali e spietati tycoon americani, di cui fanno parte Charles Foster Kane di Quarto potere e Daniel Plainview di Petrolio.

Tre anni dopo l’esile indie Jobs, di Joshua Michael Stern, con Ashton Kutcher nella parte del protagonista, e in contemporanea a un interessante documentario di Alex Gibney, Steve Jobs: The Man in the Machine, il nuovo film su Steve Jobs (appena passato al NY Film Festival, nelle sale Usa da oggi e in Italia il prossimo gennaio), è la collaborazione di una cordata importante, con il produttore «di qualità» Scott Rudin alle redini del progetto, Aaron Sorkin (The Social Network ma anche le serie The West Wing e Newsroom) alla sceneggiatura, l’inglese Danny Boyle alla regia e Michael Fassbender, in versione più mattatore del solito, nel ruolo del genio in dolcevita nera, jeans e scarpe da ginnastica.

 

Troppo intelligente e troppo ambizioso per imbarcarsi in una ricostruzione lineare della vita e delle imprese del suo difficile soggetto, Sorkin concentra il film nel backstage – letteralmente parlando, visto che l’azione si conduce quasi tutta dietro le quinte del palcoscenico dove Jobs sta per rivelare al pubblico adorante una delle sue ultime invenzioni – e in tre momenti emblematici della storia: il Macintosh originale, espressione dell’intuizione particolare di Jobs e la macchina che, fallendo, lo farà estromettere dalla Apple; il periodo dell’esilio, esemplificato dal lancio problematico del cubo di NeXT (la Pixar, acquistata negli stessi anni non è citata); e il trionfale ritorno alla casa madre, con l’unveiling dell’ iMac, il preludio alla conquista del planetaria che Jobs metterà a segno con macchine sempre meglio disegnate, più piccole (iPod, iPhone, iPad..) e da cui è sempre più difficile separarsi. In ognuno dei tre momenti, coreografati – tra corridoi, scale, camerini e retropalchi- con l’abbinamento tra vorticosi movimenti di macchina e vorticosi monologhi, che caratterizza il perenne stato di crisi della TV sorkiniana, il film mette a confronto Jobs con la stessa manciata di interlocutori: Steve Wozniak (Seth Rogen), dolce e geniale (Rainman lo chiama Jobs con protettivo disprezzo), l’amico dei tempi in cui il quartier generale della Apple era un garage, e probabilmente il cervello informatico della coppia, John Scully (Jeff Daniels) il primo CEO della Apple e il programmer di software Andy Hertzfeld (Michael Stuhlberg).

Kate Winslet è la fedelissima capa del marketing Joanna Hoffman, un espediente narrativo condannato a mediare tra la luccicanza e la mostruosità del suo boss e i comuni mortali come noi. A ognuno di questi personaggi va il ruolo di estrarre (verbalmente) il meglio e il peggio di Jobs – l’unicità della sua visione e il suo essere senza scrupoli, la dedizione totale al lavoro e la scarsa lealtà nei confronti di amici e benefattori, l’ossessione per il futuro e l’insofferenza per il passato. Se la sontuosa complessità corale di The Social Network echeggiava il grande romanzo ottocentesco, la forma a cui rimanda Steve Jobs è quella più claustrofobica di una piece teatrale. In questi tumultuosi, ripetitivi, duelli di psicologia, in cui si passa da paragoni con Stravinski ad accuse di non pagare gli alimenti, un ruolo di grande rilievo va a Lisa, la figlia inizialmente non riconosciuta, nel cui nome (senza però riconoscerlo) Jobs battezzò uno dei primi prodotti della Apple. È lei, alla fine, la chiave della redenzione di quest’uomo affascinante e terribile, la variabile che lo umanizza. Il che, specialmente dato il soggetto, non sembra una conclusione molto interessante. Non aiuta l’abituale, superficiale, trucchettismo visivo di Danny Boyle che non dimostra grande affinità o per interesse il mondo di cui si parla. Dedicato a un capitano d’industria che ha ispirato, su scala globale, un culto addirittura mistico, Steve Jobs, è un film inspiegabilmente attaccato alle piccolezze umane. Quasi moralista.

È più onesto, allora, Steve Jobs: Man in the Machine, il doc di Gibney, appena uscito anche lui, e che, pur costruito su un impianto tradizionalmente giornalistico, e secondo un punto di vista inequivocabilmente critico nei confronti di Jobs, lascia respirare tra le maglie del racconto e le contraddizioni del personaggio anche una certa ammirazione per la sua inafferrabilità. E se, l’interpretazione aggressiva, feroce, di Fassbender strilla Oscar da tutte e parti, qui spezziamo una lancia a favore di Ashton Kutcher che nel quasi telefilm Jobs, si e ci divertiva di più.