In settembre la Commissione europea invierà una missione in Myanmar per stabilire se rinnovare ai birmani la clausola di nazione favorita che si traduce in un margine di guadagno rilevante per chi esporta nella Ue.

Il volume d’affari è importante se si considera anche solo il comparto tessile che, per il 70%, vende a Paesi europei. Anche se diversi Stati Ue hanno sospeso i pagamenti del servizio del debito del Myanmar per il periodo maggio-dicembre 2020 (98 mln di dollari) e se sono stati forniti aiuti per combattere il Covid, su Yangon pende la spada di Damocle della decisione europea che rischia di aumentare le difficoltà di un Paese messo sotto stress da due mesi di lockdown e dove gli introiti del turismo (anche di quello nazionale) sono crollati per le limitazioni di spostamento. Togliere la clausola sarebbe una mazzata in più. È utile?

È legata al rispetto dei diritti umani che com’è noto vengono continuamente violati. Ma le responsabilità maggiori, benché vi sia alla fine l’avallo del governo civile, riguardano i militari che hanno tollerato i pogrom e ancora controllano non solo la guerra ma il traffico di preziosi e gran parte dell’industria del Paese. Come ha scelto di fare il Regno Unito, sono queste persone che vanno colpite, non le aziende dell’export e, di fatto, le loro maestranze.

Se è vero che molto del manifatturiero è in mano ai militari, sono i loro singoli beni che vanno colpiti: congelati all’estero con un divieto – che ora è limitato al solo acquisto di armi – che va esteso a tutti i beni che l’élite in divisa può comprare, dalle auto e beni di lusso, ad appartamenti, azioni, servizi, vacanze. Difficile ma possibile. Colpire l’industria invece non servirà. Penalizzerà ancora di più la manodopera non certo i tycoon – pronti a licenziare o a ricorrere ad altri mercati – cui semmai va imposto di adeguare salari e diritti alle regole dell’Ufficio internazionale del lavoro…