Il monito europeo sullo stato dei conti pubblici italiani ormai è un appuntamento fisso. Non farebbe quasi più notizia neppure se la stampa fosse indipendente, figurarsi nell’attuale stato di gioioso asservimento collettivo al sommo fiorentino. Però nel bollettino mensile della Bce diffuso ieri c’è un passaggio che dovrebbe destare una certa inquietudine. L’Italia rischia infatti «un significativo scostamento dai requisiti richiesti anche qualora si decidesse in primavera di accordare maggiore flessibilità al Paese». È una minaccia esplicita.
All’origine del monito c’è lo scarto dello 0,8% tra il Pil 2016 e il percorso «previsto», cioè imposto per diktat, dalla stessa Bce. Rispetto alle previsioni d’autunno la forbice si è allargata dello 0,2% in più «a causa delle spese aggiuntive inserite nella legge di stabilità». I guardiani del rigore non si sono scordati di quel taglio della tassa sulla casa che avevano criticato, al quale Renzi non ha rinunciato perché è il cavallo di battaglia nella sua campagna per le comunali.
Inoltre l’Italia, pur se in buona compagnia, cioè con Belgio, Irlanda, Francia, Spagna, Portogallo, Slovenia e Finlandia, è esposta «a rischi elevati per la sostenibilità del bilancio pubblico nel medio periodo». Soprattutto a fronte di eventuali «shock avversi». Dato che le misure decise da Draghi, a partire dal quantitative easing, facilitano agli otto reprobi la vita, quei «risparmi straordinari», andrebbero utilizzati «per costruire riserve e migliorare la capacità di tenuta». Urgono quindi «ulteriori sforzi di risanamento».
Nel complesso, il bollettino rivela una notevole preoccupazione, anche se ancora contenuta. La ripresa «prosegue», però «a ritmi inferiori a quelli attesi all’inizio dell’anno». La previsione per il 2016 passa, per l’Eurozona, dall’1,7 all’1,4. Quella per il 2017 dall’1,9 all’1,7. La disoccupazione, pur diminuita, è ancora elevata. L’inflazione, un tempo aborrita e oggi auspicata, non cresce: si spera che ce la faccia nella seconda metà dell’anno.
L’ennesimo monito sarebbe preoccupante comunque, per la minaccia di procedura d’infrazione, e lo stesso dicasi per l’accusa di non aver saputo sfruttare a dovere il quantitative easing. Il cortese ma a modo suo gelido atto d’accusa è però tanto più temibile tenendo conto della strategia che Renzi espone da mesi in pubblico e in privato. L’abolizione della tassa sulla casa è solo un primo assaggio, buono per le comunali e per tastare il terreno. Ma quando le elezioni vere si avvicineranno, e non è affatto escluso che la data fatidica arrivi nella primavera prossima e non in quella del 2018, ci vorrà ben altro. Berlusconi ha fatto scuola e Renzi ha imparato la lezione: niente vale quanto la promessa di tagliare le tasse per accaparrare consensi elettorali. In fondo non è facile che l’Europa passi alla procedura d’infrazione contro l’Italia in una fase politicamente così delicata, e a voler guardare il bicchiere mezzo pieno il bollettino di ieri potrebbe essere un segnale positivo quanto alla concessione della flessibilità a maggio. Ma di certo è un ammonimento molto preciso: che la flessibilità ulteriore sia concessa o meno, la Bce non ha intenzione di assistere senza intervenire a nuovi tagli delle tasse, tanto più a fini elettorali.
L’ultimo elemento che nel bollettino di ieri tocca l’Italia è l’incidenza nelle stime al ribasso della scarsa vitalità della domanda. Proprio ieri l’Istat ha certificato che la domanda interna resta stentata. La vendita al dettaglio di gennaio, mese di saldi, è identica a quella del dicembre 2015, il che significa una diminuzione dello 0,8% rispetto al gennaio precedente. Il bollettino di ieri non segna la fine della tregua nel braccio di ferro tra Italia ed Europa, ma ricorda che si tratta appunto di una tregua. Un primo segnale si potrebbe avere a proposito dell’indennizzo ai piccoli risparmiatori delle banche salvate per decreto, tra le quali Etruria. Il governo vorrebbe portarlo da 100 a 300 mln e senza più arbitrato. Sempre che l’Europa lo conceda.