La coalizione dei volenterosi sponsorizzata dagli Stati Uniti non piace più nemmeno all’Iraq. Vuoi per gli scarsi risultati ottenuti, vuoi per la presenza di regimi che approfittano della guerra al terrore per estendere la propria influenza. Ieri il premier iracheno al-Abadi ha dato voce a gran parte del popolo iracheno e indirettamente a gruppi politici e religiosi che da subito hanno criticato la discesa in campo Usa contro l’Isis.

Se dall’Iran torna forte la condanna ai paesi arabi che prendono parte alla coalizione («Dovrebbero imparare la lezione dal destino del dittatore Saddam Hussein – ha detto il capo del Consiglio della Shura, Ali Larijani – L’America li colpirà quando vuole. L’Occidente usa i raid contro l’Isis per distruggere le infrastrutture siriane»), Baghdad fa lo stesso.

L’Iraq, ha detto al-Abadi, è «totalmente» contrario al coinvolgimento di paesi arabi nei raid contro lo Stato Islamico in territorio iracheno e al dispiegamento di truppe di terra. Unico strumento per sostenere il paese, ha aggiunto, è la ristrutturazione dell’esercito governativo (smantellato dagli Usa nel dopo-Saddam ed epurato dei fedelissimi del rais).

Di risultati poi se ne vedono pochi: ieri i miliziani di al-Baghdadi hanno prima preso la città di Hit, nella provincia di Anbar, e poi fatto incetta di armi dopo aver occupato l’ennesima base militare irachena, il campo di Albu Aytha, a meno di 30 km da Baghdad. Sarebbero tra i 240 e i 600 i soldati catturati dell’Isis. Per errore, poi, un pilota dell’aviazione irachena ha sganciato munizioni e cibo su una postazione dello Stato Islamico ad Anbar, invece che su quella governativa: ulteriore dimostrazione dell’inesperienza di molte delle truppe di Baghdad, giovani e infilate nell’uniforme militare per sostituire la vecchia guardia.

Intanto, dall’altra parte del confine, i jihadisti prendevano un altro villaggio curdo siriano, Kazikan. Sono ormai due settimane che la battaglia per il controllo dei villaggi alla frontiera nord prosegue. A combattere contro l’avanzata dell’Isis sono i curdi locali e miliziani arrivati dalla Turchia, molti dei quali membri del Pkk. Chiedono armi all’Occidente, non solo bombe dal cielo.

L’avanzata dell’Isis sta facendo tremare la stabilità turca. La partecipazione attiva del Pkk ad azioni di terra in Siria impensierisce il presidente turco Erdogan che ieri ha tirato un sospiro di sollievo per il via libera del parlamento (298 voti a favore e 98 contrari) all’invio di truppe di terra all’estero e all’utilizzo delle proprie basi da parte di forze straniere: «Sganciare bombe dal cielo è solo una soluzione temporanea. Ritarda la minaccia», ha detto ieri Erdogan aprendo la strada all’intervento turco in Siria, seppur il suo stesso ministro della Difesa abbia frenato: il voto favorevole non significa un’azione immediata.

La mozione approvata dal parlamento di Ankara è stata aspramente criticata dalle opposizioni: il Partito Repubblicano la considera strumento di guerra non contro l’Isis, ma contro Damasco. «L’idea in Occidente è che la Turchia appoggi l’Isis – ha detto il leader del partito, Kilicdaroglu – Una percezione corretta. Lo Stato Islamico ha uffici in Turchia, unità e membri».

Ankara paga lo scotto di anni di sostegno indiretto ai gruppi islamisti anti-Assad: con il sud costretto ad accogliere centinaia di migliaia di rifugiati e con l’Isis che bussa alla porta, ora a minacciare la Turchia è anche la resistenza curda. Ieri a parlare è stato il leader del Pkk, Abdullah Ocalan, da dietro le sbarre della prigione dell’isola di Imrali: «L’assedio di Kobane è lontano dall’essere un assedio normale – ha detto Ocalan – Non minaccia solo i risultati democratici del popolo curdo ma trascinerà la Turchia in una nuova era di colpi di stato e porrà fine al processo di pace».

A sentirsi ora nel mirino è anche l’Arabia saudita che ha cominciato la costruzione di un muro lungo il confine con l’Iraq. Primo finanziatore e sostenitore dei gruppi jihadisti, ora occupa un posto di prima fila nella battaglia al figliocco Isis. L’obiettivo è chiaro: ridurre l’influenza sciita iraniana. Per farlo bombarda insieme agli Usa e riceve da Washington sostegno militare: il Pentagono sta pianificando la vendita a Riyadh di batterie di missili Patriot, un contratto da 1,75 miliardi di dollari, e di artiglieria agli Emirati arabi dal valore di 900 milioni. «Il programma contribuirà alla sicurezza nazionale Usa – ha detto il Pentagono – aiutando a migliorare la sicurezza di un partner che continua a essere una forza importante per la stabilità e il progresso economico del Medio Oriente».

La stessa forza che quel Medio Oriente ha contribuito a destabilizzare, creando una rete di gruppi islamisti che oggi controllano un terzo dell’Iraq e il nord della Siria.