Non sarà come dieci o 20 anni fa, quando l’alleanza tra Tel Aviv e Ankara rappresentava la principale concentrazione di forza in Medio Oriente. Eppure la riconciliazione, che sarà firmata oggi dalle due parti, non metterà soltanto fine a una frattura cominciata sei anni fa quando un commando israeliano abbordò in acque internazionali un convoglio navale della “Freedom Flotilla” con aiuti umanitari per Gaza e uccise 10 passeggeri sul traghetto Mavi Marmara. La pace tra il leader turco Erdogan e il premier israeliano Netanyahu significa anche che i due Paesi guardano con gli stessi occhi ad alcuni nodi fondamentali, dalla guerra in Siria al “contenimento” dell’Iran, dalla sicurezza allo sfruttamento delle risorse naturali (gas). Torneranno anche a svolgere esercitazioni militari congiunte, riferiva ieri il giornale economico israeliano Globes. L’accordo con la Turchia è di «importanza strategica» ha commentato Netanyahu in conferenza stampa a Roma, dove tra domenica e ieri ha incontrato il Segretario di Stato Usa John Kerry e il presidente del consiglio italiano Renzi.

Dopo sei anni il primo ministro israeliano emerge vittorioso dalla lunga disputa con Ankara. Certo ha dovuto cedere sui risarcimenti (20 milioni di dollari) per le famiglie delle vittime del Mavi Marmara, un passo che ha fatto irritare non pochi nella sua maggioranza di destra. E su pressione americana, a mezza bocca, qualche tempo fa aveva anche presentato a Erdogan le scuse del suo Paese per l’uccisione dei 10 passeggeri. Ma Israele non revocherà il blocco della Striscia di Gaza, il punto sul quale batteva Erdogan e che ha paralizzato per lungo tempo la riconciliazione. Gli aiuti umanitari che la Turchia invierà a Gaza dovranno essere scaricati al porto israeliano di Ashdod per i controlli di sicurezza come avviene per tutte le altre merci dirette alla Striscia. La Turchia inoltre si impegna – ha sottolineato Netanyahu – a non perseguire penalmente i militari israeliani coinvolti nella strage sul Mavi Marmara e a non consentire ad organizzazioni armate (cioè Hamas) di pianificare in territorio turco attacchi contro Israele. La Turchia cercherà anche di assistere Israele nelle trattative per la restituzione alle famiglie dei corpi di due soldati morti durante l’offensiva contro a Gaza del 2014 e per la liberazione due civili israeliani (un ebreo etiope e un beduino) detenuti nella Striscia. Ankara, ha aggiunto Netanyahu, agevolerà l’ingresso di Israele in organizzazioni internazionali e favorirà lo sviluppo di rapporti economici bilaterali, tra cui quelli relativi allo sfruttamento di giacimenti di gas naturale nel Mediterraneo.

Non ci vuole molto a capire che l’accordo rappresenta una sconfitta netta per la linea portata avanti per anni da Erdogan che sullo scontro duro con Israele, anche prima dell’attacco al Mavi Marmara, aveva imperniato parte della sua strategia neo-ottomanista volta a prendere la leadership del mondo islamico sunnita. Appartengono ormai al passato gli scontri verbali tra il leader turco e Netanyahu. I tempi sono cambiati. In Medio Oriente, in particolare in Siria, le cose sono andate male per i disegni di Erdogan che ora vede realizzarsi, sebbene ancora in minima parte, le aspirazioni del popolo curdo mentre il suo nemico Bashar Assad è sempre al potere in Siria. Senza dimenticare le conseguenze del recente scontro frontale tra Ankara e la Russia. Proprio ieri Erdogan ha inviato a Vladimir Putin una lettera di scuse per l’abbattimento lo scorso novembre di un caccia russo e un invito a «ristabilire i tradizionali rapporti amichevoli» tra i due Paesi oltre che a lavorare insieme «nella risoluzione delle crisi regionali e nella lotta al terrorismo». È, di fatto, quel riconoscimento del ruolo russo in Siria e il Medio Oriente che il leader turco ha respinto per quasi un anno. Un cambio di rotta suggerito alla Turchia proprio da Netanyahu che negli ultimi mesi è volato spesso a Mosca per incontrare Putin e discutere di Siria e Medio Oriente.

In Hamas la rabbia è forte per la rinuncia di Erdogan alla revoca del blocco di Gaza. I suoi leader però devono trattenerla e ora ringraziano la Turchia che nella Striscia vuole costruire un ospedale, una centrale elettrica e un impianto di desalinizzazione dell’acqua. E’ chiaro tuttavia che l’accordo è una sconfitta per il capo dell’ufficio politico di Hamas, Khaled Mashaal, che appena qualche giorno fa era in Turchia nell’estremo tentativo di far cambiare idea a Erdogan. Mashaal nel 2012 aveva convinto la direzione di Hamas ad abbandonare la Siria e a mettere fine alla collaborazione con l’Iran per abbracciare il ricco Qatar e la potente Turchia. Alla fine Erdogan ha scelto di rilanciare l’alleanza con Israele, storico partner del suo Paese nelle strategie per il controllo della regione e con il quale forse esistono intese sulla Siria. «Hamas da un lato deve per forza sorridere e dall’altro deve nascondere la sua frustrazione» dice al manifesto l’analista di Gaza Saud Abu Ramadan «ha un disperato bisogno degli aiuti umanitari turchi per recuperare i consensi perduti a Gaza ma deve anche ingoiare la mancata revoca del blocco israeliano (di Gaza) che era e resta la chiave della sua strategia e del suo successo».