La colonna in marcia compare oltre la curva dell’asfalto della superstrada D100, sotto il sole già bollente delle nove, mitigato appena dalla brezza che ha spazzato via l’afa asfissiante dei giorni scorsi.

In testa uno stuolo di mezzi della sicurezza, file interminabili di nere divise della polizia e tute mimetiche dell’esercito con fucili da combattimento imbracciati.

Ma prima di tutto c’è una bandiera, con i colori giallo e rosso di un’amatissima squadra di calcio di Istanbul, al cui centro campeggia l’immagine di Mustafa Kemal Ataturk, padre della repubblica turca.

È suo il volto che apre la strada ad una marcia di protesta che, superati i 400 chilometri di distanza dalla capitale Ankara, si appresta a consumare gli ultimi rimasugli di percorso e che oggi raggiungerà destinazione, il distretto di Maltepe.

LÀ SI TROVA LA PRIGIONE in cui è rinchiuso Enis Berberoglu, parlamentare del partito repubblicano finito in carcere con l’accusa di aver divulgato segreti di Stato, fotografie che provano il trasferimento di armi in Siria ad opera dei servizi segreti turchi. Il suo arresto ha dato il la a una marcia di protesta e rivendicazione della giustizia con pochi precedenti nel paese.

La folla sfila interminabile e ordinata, scorre come un placido fiume sotto i ponti e i cavalcavia da cui altri cittadini osservano incuriositi: lanciano grida di sostegno, applaudono, sventolano la bandiera nazionale o l’effigie di Ataturk.

Qualche individuo isolato invece ostenta il proprio disaccordo, inneggia al presidente Recep Tayyip Erdogan, mostra il segno dell’ultranazionalismo turco dei lupi grigi o quello a quattro dita dei Fratelli musulmani.

I MANIFESTANTI in marcia non si scompongono, l’ordine di non reagire alle provocazioni è ben recepito e in risposta giungono soltanto applausi e cori: l’inno nazionale, qualche canto della guerra di indipendenza, il mantra cadenzato che ripete «hak, hukuk, adalet», diritto, legge, giustizia.

Alla giustizia è infatti dedicata questa marcia che Kemal Kilicdaroglu, capo del partito repubblicano Chp, ha voluto per protestare contro l’appropriazione degli organi giudiziari da parte del governo.

Commenta il leader Kilicdaroglu: «Ci hanno tolto il parlamento», in riferimento al referendum del 16 aprile scorso che rafforzato la presidenza, «ora cerchiamo giustizia nelle strade».

LA FOLLA IN MARCIA è riunita sotto il colore bianco di magliette e cappelli che recitano adalet. Assenti bandiere e simboli di partito, banditi dagli organizzatori per svincolare l’iniziativa da logiche di appartenenza, «perché adalet, giustizia, è un bene comune», dicono gli uomini e le donne in marcia.

Eppure in questo fiume bianco convivono anime molto diverse tra loro, in un modo che per certi versi ricorda i più colorati e vibranti giorni di parco Gezi.

Spicca la folta barba e il viso segnato dalle rughe di Veysel «Amca» Kilic, personaggio lontano dal kemalismo secolare targato Chp, dato che è per sua stessa ammissione vicino a Milli Gorus, movimento politico islamista in cui Erdogan ha militato.

Il figlio di Kilic, Sebahattin, è tra i quasi 400 cadetti dell’aeronautica militare in carcere da quasi un anno. «Ma io non mi fido della supposta indipendenza di questa magistratura. Voglio adalet, giustizia, in questo paese; voglio vivere libero nella mia Turchia».

ACCANTO C’È AYTEN, madre di un altro di quei cadetto. I cartelli che porta chiedono giustizia anche per i soldati morti nel corso del tentato golpe e dimenticati da uno stato selettivo nella memoria: «Anche i nostri figli sono vittime di quanto accaduto un anno fa e per essi chiediamo adalet, giustizia».

Il leader del partito repubblicano Kemal Kilicdaroglu (Foto Reuters)
Il leader del partito repubblicano Kemal Kilicdaroglu (Foto Reuters)

 

Ci sono gli elmetti bianchi dei lavoratori e le sigle sindacali, per i quali «adalet deve tornare anche sul lavoro», perché le purghe di Erdogan non riguardano solo il carcere in cui sono finiti in migliaia, ma anche gli innumerevoli posti di lavoro perduti e l’impossibilità di trovarne un altro.

CI SONO LE FAMIGLIE dei minatori di Soma, località simbolo di tragedia nel mondo del lavoro in attesa per i loro morti di adalet, giustizia. Lavoratori sono anche i giornalisti e marciano quelli del quotidiano Sozcu, chiedono che «il giornalismo non sia un crimine, perché senza giornalismo libero non c’è adalet».

Marcia chi dedica i propri passi a Semih Ozakca e Nuriyeh Gulmen, in carcere per aver iniziato uno sciopero della fame per riavere il loro posto di lavoro e che ha ormai oltrepassato i 110 giorni. Marciano i gruppi del tifo calcistico organizzato.

Marciano uomini in giacca e cravatta e ci ricordano «come non c’è adalet quando è in vigore lo stato di emergenza», che cancella la certezza del diritto e rende tutto confuso e arbitrario.

SORPRENDONO I NUMERI imponenti raggiunti dalla marcia che secondo la procura ha ormai superato i 100mila partecipanti, un successo se si considera che a partire da Ankara il 15 giugno erano poche migliaia.

Sorprende di più constatare l’assenza totale di incidenti, timore in principio più che plausibile e fortunatamente svanito chilometro dopo chilometro, in ossequio al principio di disobbedienza civile e pacifica che ha portato molti commentatori a paragonare la marcia a quelle di Gandhi in India.

Certo, quest’ultimo non camminava scortato da qualche decina di poliziotti come il redivivo Kilicdaroglu che oggi percorrerà gli ultimi tre chilometri verso la prigione da solo, capitolo finale di un’iniziativa da cui esce enormemente rafforzato dopo mesi di critiche alla sua passività.

La vera domanda è quale sarà il prossimo passo di Kilicdaroglu, quale il destino della marcia. Erdogan, dopo gli strali iniziali lanciati, ha consentito lo svolgimento dell’iniziativa mentre prepara le celebrazioni dell’anniversario del tentato golpe del 15 luglio, una probabile dimostrazione di forza a colpi di gente nelle strade.

CAPITALIZZERÀ su questa marcia, considerandola la dimostrazione che in Turchia vive ancora adalet, nonostante in oltre 100mila abbiano marciato dicendo il contrario. Quattro anni fa il vivace fuoco di Gezi è stato spento dagli idranti e i lacrimogeni della polizia. Può il lento fluire di questo fiume che invoca giustizia vedere un finale diverso?