Dopo un mese d’assedio a Kobane arrivano i primi aiuti militari. Dal cielo e da terra: domenica jet statunitensi hanno sganciato sulla città kurda a nord della Siria armi, munizioni e medicinali inviati dalla regione autonoma del Kurdistan iracheno per «permettere la continuazione della resistenza contro l’Isis», si legge in un comunicato dell’esercito Usa.

Da Irbil giungono anche combattenti: un gruppo di peshmerga attraverserà la frontiera tra Turchia e Siria per raggiungere la città nella regione di Rojava, coordinati con le autorità turche. Lo ha fatto sapere ieri il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu: «Stiamo aiutando i peshmerga ad entrare a Kobane. Non è nostro desiderio che la città cada». Una decisione che stravolge la politica di immobilismo adottata finora da Ankara e che segue, secondo l’agenzia stampa kurda Rudaw, alla richiesta del presidente del Kurdistan iracheno Barzani, ma soprattutto alla pressioni Usa nonostante il palese fastidio espresso dal presidente Erdogan per la consegna di armi ai kurdi delle Ypg, le Unità di protezione popolare del Partito di Unità Democratica (Pyd), estensione siriana del Pkk.

La Casa Bianca aveva riportato di una telefonata, sabato, tra il presidente Obama e Erdogan con la quale si annunciava il lancio di aiuti militari su Kobane: «Comprendiamo la preoccupazione turca per il tipo di gruppi, compresi quelli kurdi, che sono stati impegnati in un conflitto [con la Turchia] – ha commentato un funzionario Usa – Tuttavia, riteniamo che Stati uniti e Turchia si trovino di fronte un nemico comune, l’Isis».

La reazione era scontata: «Il Pyd è per noi uguale al Pkk – ha detto Erdogan ad un gruppo di giornalisti – Un’organizzazione terroristica. Sarebbe un errore per gli Stati uniti con cui siamo amici e alleati nella Nato aspettarsi da noi un ‘sì’ al sostegno di un’organizzazione terroristica». L’apatia turca nei confronti della resistenza di Kobane è frutto dell’alleanza tra i kurdi siriani e il Partito Kurdo dei lavoratori di Abdullah Ocalan: per Ankara ogni fucile consegnato a Rojava è un fucile nelle mani del Pkk. Per questo, il permesso di ingresso in Siria è stato accordato ai soli kurdi iracheni e lascia fuori i combattenti del Pkk che da settimane tentano di passare la frontiera.

Per ottenere quel sì dalle autorità turche, ha ricordato ieri il premier Davutoglu, è necessario che la coalizione globale guidata dagli Usa accetti le precondizioni di Ankara: no-fly zone sul cielo della Siria e zona cuscinetto dentro il territorio siriano. Precondizioni figlie del reale obiettivo turco, far cadere il presidente Assad. Sul fronte Damasco, ieri, è stata l’Unione Europea a muoversi di nuovo: i ministri degli Esteri dei paesi membri hanno aggiunto alla lista nera di Bruxelles altre 16 personalità legate al regime di Assad.

E se a Kobane si continua a combattere l’assedio che nonostante l’intensificazione dei raid aerei non cessa (135 i bombardamenti sulla città), sul fronte iracheno si assiste ad una recrudescenza dell’offensiva islamista. Protagonista torna Sinjar, la comunità yazidi che all’inizio di agosto attirò l’attenzione del mondo: peshmerga e coalizione aprirono un corridoio umanitario per salvare migliaia di persone intrappolate sul monte Sinjar, ma 5mila yazidi furono uccisi e altri 7mila – soprattutto donne – finivano nelle mani dei miliziani di al-Baghdadi, venduti al mercato degli schiavi o costrette a matrimoni con i combattenti islamisti.

Oggi l’assedio dello Stato Islamico soffoca di nuovo la minoranza irachena: sarebbero 700 le famiglie yazidi ancora in trappola sul monte Sinjar. Nelle stesse ore target dell’Isis era la città sacra sciita di Karbala, considerata da Teheran la linea rossa che lo Stato Islamico non dovrebbe superare. Ieri è stata colpita da 5 autobombe che hanno ucciso 15 persone in zone commerciali e parcheggi vicino a uffici governativi.

Bombe anche a Baghdad: almeno 22 le vittime di un’esplosione in un mercato nel quartiere di al-Taramiya e 10 in un attentato suicida contro una moschea sciita nel distretto di Sinak, colpita dopo la preghiera di mezzogiorno. La serie di attacchi è giunta dopo l’attentato di domenica contro un’altra moschea sciita a Baghdad, nel quartiere di Harthiya. Un attentatore suicida si è fatto saltare in aria durante un funerale, uccidendo 21 persone. Baghdad è da giorni teatro di sanguinosi attacchi che colpiscono al cuore il potere centrale e le sue istituzioni: in un mese e mezzo sono stati 31 gli attentati suicidi nella capitale.