Prima di tutto, a proposito del recente libro di Jared Diamond, Il mondo fino a ieri (Einaudi 2013, pp. 520, euro 29) va precisato che non si tratta di un libro di antropologia. A dispetto del titolo, del sottotitolo (Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali) e degli argomenti, difficilmente un antropologo al corrente delle linee di riflessione più recenti nel suo campo si avventurerebbe in una così spericolata trattazione della società umana.
Da almeno mezzo secolo, infatti, l’opposizione fra società tradizionali e società moderne (o «occidentalizzate», come le chiama Diamond), perno di tutto il libro, è stata dagli antropologi prima messa in discussione, poi analizzata nelle sue molteplici sfaccettature, scientifico-epistemologiche, per così dire, e anche politico-ideologiche, infine abbandonata; dunque le società tradizionali, almeno per quanto ci riguarda, non esistono. Non esistono come oggetto empirico osservabile dotato di certi tratti identificabili (la caccia alle teste, l’infanticidio, la guerra rituale ecc.), ancor meno come oggetto teorico da studiare. In antropologia vale il principio per cui «siamo tutti contemporanei».
Di cosa parla allora il libro di Diamond? La risposta è che, a dispetto della chiara (e meritata, perché altri suoi lavori sono pregevoli) fama del suo autore, Il mondo fino a ieri non è un saggio divulgativo, ma è il trionfo del comune sentire del cittadino medio americano su questioni vagamente socio-geo-antropologiche. Poiché gli americani, come del resto la grande maggioranza degli appartenenti al cosiddetto Primo mondo, non sono tutti sofisticati cultori di antropologia, il risultato è un libro noioso, ripetitivo, pieno di stereotipi e pregiudizi più o meno impliciti, senza valore scientifico.

Qualche stereotipo

Fa parte del senso comune occidentale proprio l’idea «passatella» della disciplina di cui questo libro di Jared Diamond è impregnato. Un’antropologia viziata da un’ideologia evoluzionista (noi ci siamo evoluti, siamo moderni rispetto a loro rimasti arretrati, primitivi, ma proprio per questo, osservandoli, possiamo farci un’idea di come siamo stati fino a ieri, appunto, e magari imparare qualcosa). Un’antropologia diluita: l’autore dichiara che il suo libro si basa su una classificazione delle società umane (quella di Elmann Service degli anni ’60 del Novecento) ormai superata, ma che ha il vantaggio della «semplicità» (meno categorie da ricordare, niente termini composti che complicano la vita del lettore).
Infine, generalista, dedita a grandiose comparazioni – quelle che si fecero per un certo periodo toccando il culmine negli anni ’50 del Novecento con la celebre impresa denominata Human Relations Area File che, se conserva dei tratti metodologicamente validi, non sono però quelli di cui si serve Diamond.
Né, del resto, anche questo va precisato, in alcun passo del libro si coglie da parte dell’autore l’intenzione di qualificarsi come antropologo; anzi, spesso Diamond si colloca nel contesto che usa per alimentare le sue osservazioni/riflessioni in ruoli tutt’altro che antropologici: per fare un esempio, ecco che lo troviamo in compagnia di «un certo Yabu», abitante di un villaggio degli altipiani centrali guineiani, una zona ovviamente rimasta legata a uno stile di vita fortemente tradizionale, che ha portato con sé, scrive, «perché mi facesse da assistente sul campo in alcune spedizioni ornitologiche».
L’autore non è né vuole essere un antropologo, però promette al lettore qualcosa di molto antropologico, un confronto fra le «società tradizionali» – quelle poche ancora esistenti e le moltissime di cui possiamo ricostruire indirettamente le caratteristiche – e le società «occidentalizzate». L’obiettivo è il seguente: data la premessa evoluzionista per cui le società tradizionali documentano come «i nostri avi abbiano vissuto per decine di migliaia di anni, praticamente fino a ieri», gli stili di vita tradizionali, che ci appaiono oggi così esotici, sono in realtà parte di noi molto più di quanto non si arrivi a pensare.

Adozioni di modelli

Dato che le società tradizionali hanno elaborato soluzioni spesso diverse, a volte addirittura opposte rispetto a quelle elaborate dalle società del Primo mondo ai problemi dell’esistenza umana, l’autore sostiene che potremmo stupirci della superiorità di tali scelte rispetto alle nostre e, addirittura, migliorare la nostra vita adottandole.
Certo, non tutto è rose e fiori; le società tradizionali, per come le rappresenta Diamond, nel pieno rispetto dell’immagine che della vita tribale domina il senso comune «occidentale», sono anche feroci, massacrano i nemici senza pietà (come se «noi» non lo facessimo), praticano l’infanticidio, abbandonano gli anziani, non vanno quindi idealizzate e celebrate a oltranza, anzi, in molti casi l’intervento «modernizzatore» degli stati nazione in cui tali società sono incapsulate ha avuto effetti benefici, ponendo termine alle guerre endemiche – per inciso, va ricordato che alcune sue affermazioni hanno suscitato le critiche di un’organizzazione come Survival International, dedita alla difesa dei diritti dei popoli tribali in quanto soggetti politici oltre che culturali, e non in quanto entità naturali – ma, e proprio qui sta il punto, la visione di Diamond dell’umanità è quella di una grande comunità in cammino (con chi sta avanti e chi invece rimane indietro), entro cui le società tradizionali sono come le specie ornitologiche che si recava a osservare in Nuova Guinea.
I popoli tribali, per Jared Diamond, non sono soggetti politici e storici, almeno stando alle enunciazioni contenute in questo libro, che esprime la prospettiva universalista tipica di certe posizioni scientifico-ideologiche da cui si continua a guardare il mondo sociale. Si tratta di posizioni radicate nel mondo accademico occidentale, figlie di quell’antirelativismo dilagante (una sorta di maccartismo del III millennio) che Clifford Geertz ha indicato come uno dei peggiori mali della nostra scienza e della nostra filosofia (si veda Antropologia e filosofia, Il Mulino, 2001).

Il meglio e il peggio

Questa prospettiva porta a considerare le diverse culture umane non come esiti di processi storici, quindi in divenire costante, ma come esperimenti naturali di organizzazione sociale: è da qui che deriva l’operazione centrale del libro, quella «comparazione sistematica fra esperimenti sociali diversi» che consente poi all’autore di valutare il meglio e il peggio. Diamond non è un imperialista, ma questo suo lavoro esprime un mix di universalismo, positivismo, oggettivismo e può essere – data anche la notorietà dell’autore – un ottimo pretesto per strumentalizzazioni ideologiche di ogni tipo, utili sia a rafforzare stereotipi etnocentrici sia, eventualmente, a negare diritti politici.
Non di queste posizioni hanno bisogno lo studio delle società e delle culture umane, né i popoli tribali. Non di queste posizioni hanno bisogno la difesa dei diritti umani e la battaglia contro le discriminazioni ai danni delle minoranze e della diversità. Studiare i processi culturali, ambito in cui regnano la diversità e la variazione continue, è l’operazione intellettuale più relativista che si possa immaginare; ciò non significa cedere il passo a una totale anarchia conoscitiva, ma ammettere che la straordinaria pluralità di punti di vista, idee sul mondo, usi e abitudini culturali e linguistiche è la ricchezza della specie umana, una ricchezza che ha valore in sé, e non nasconde alcun livello unitario superiore o inferiore. Gli esseri umani, infatti, si realizzano in quanto tali attraverso la produzione di cultura in una dimensione sociale.

Interazioni linguistiche

Restiamo quindi sì degli organismi biologici, con esigenze da soddisfare, ma talmente impregnati di significati culturali da rendere privo di senso e valore conoscitivo ogni tentativo di ricondurci a matrici, leggi, dispositivi, principi generali. Siamo lontani anni luce dall’evoluzionismo universalista (quello dei nipotini di Darwin, per intenderci) fatto di miglioramenti e peggioramenti, passi avanti e arretramenti (su quale strada e a quale fine, verrebbe da chiedersi).
D’altra parte, l’intreccio inestricabile fra dimensione organica e culturale (e linguistica) che ci rende umani è proprio alla base dell’affermazione di Diamond secondo cui la conoscenza di due o più lingue aumenterebbe le difese contro il morbo di Alzhaimer. Solo perché parte integrante della nostra natura organica un prodotto culturale e storico come una lingua potrebbe forse influenzare il decorso di una malattia degenerativa, quindi totalmente biologica, ritardandone di qualche anno il manifestarsi. Nel caso questa ipotesi, forse unico spunto interessante del libro, avesse una qualche plausibilità (non da escludere ma che richiederebbe una trattazione più ampia), gli effetti del plurilinguismo sull’Alzhaimer sarebbero comunque altamente diversificati: non tutte le lingue eserciterebbero gli stessi effetti in tutti gli individui, non in tutte le circostanze e i contesti e, come sempre accade per le dinamiche umane, il tasso di variazione sarebbe elevato.
Gli effetti di una lingua sul nostro pensiero sono strettamente legati alle cornici sociolinguistiche del suo uso, per cui in contesti contrassegnati da fenomeni di commutazione di codice linguistico (un parlante bilingue passa frequentemente da una lingua a un’altra nel corso della sua quotidiana interazione comunicativa) sarà ragionevole aspettarsi una forte influenza di entrambe le lingue sul pensiero e sulla visione del mondo, ma non sarà così dove il bilinguismo resta solo scarsamente messo in atto dal parlante. Insomma, gli esseri umani sono soprattutto differenti, e lo studio della diversità culturale richiede attenzione ai dettagli della vita quotidiana delle persone, ai fenomeni di variazione che articolano il senso (e le sfumature di senso) delle nostre vite. Certo che siamo tutti esseri umani, membri della stessa specie, ma dire questo è una banalità: in quanto tali,, la nostra principale caratteristica è la diversità.
Si tratta di una diversità culturale e storica che non è affatto la medesima – non ha la stessa matrice – di cui parlano i biologi evoluzionisti in base al loro apparato teorico (e ideologico): i prodotti culturali non subiscono alcuna «selezione naturale» che agisce «su una diversità biologica prodotta dalle mutazioni e ricombinazioni di geni, vagliando il materiale di partenza in base al criterio della funzionalità».

Derive rischiose

La diversità culturale è il prodotto di una qualità peculiare di homo sapiens, che è la capacità di produrre senso; questa si esplica in una dimensione sociale, altrimenti resta inespressa, ragion per cui un uomo in solitudine non produrrebbe cultura, né linguaggio, né memoria, né emozioni né alcun altro tratto «umano». Inoltre, la produzione di senso di homo sapiens è continua e indefinita: dati due sensi contigui, è sempre possibile produrne uno intermedio. Da qui la complessità del mondo culturale in cui viviamo, l’importanza delle sfumature, degli interstizi; ridurre questa diversità a mutazioni, selezioni, funzioni e evoluzioni è gretto, dal punto di vista intellettuale, ed è sbagliato dal punto di vista scientifico.
In più, è pericoloso, dal punto di vista ideologico, perché offre spunti a chi, per motivi politici, volesse svolgere quel ruolo di schiacciasassi esercitato molto spesso dagli stati nazione nei confronti delle minoranze, che lo stesso Diamond indica (nel capitolo dedicato alle lingue) come un fattore rilevante della scomparsa della diversità linguistica.
Jared Diamond si schiera sì a favore della salvaguardia di popoli, lingue e culture; tuttavia per lui le lingue e le culture vanno protette, un po’ come si fa per la specie animali e vegetali, per il loro valore oggettivo e non per il loro valore politico e storico. Le ragioni per difendere la diversità (o per lasciarla al suo destino) vanno cercate invece altrove. In primo luogo nel riconoscimento che culture e lingue esistono solo perché e finché ci sono persone che le mantengono vive, agendo e parlando. I diritti, anche quello alla diversità, sono prima di tutto delle persone, che vanno difese, non delle culture.