«È la migliore opzione tra le cattive opzioni». Il commento di Fawaz Gerges, capo del dipartimento di studi mediorientali alla London School of Economics, racconta la tregua entrata in vigore ieri, al tramonto. Nella bolgia siriana il cessate il fuoco è imposto dall’alto senza che esista una reale volontà da parte degli attori sul campo.

Se reggerà, lo diranno i prossimi giorni: per ora durerà 48 ore rinnovabili di due giorni in due giorni. Resta un problema: l’assenza di basi comuni su cui costruire i passi politici successivi. La tregua è fine a se stessa, quando dovrebbe aprire al dialogo tra governo e opposizioni.

O meglio, un fine ce l’ha ed è un altro dialogo, quello imbastito dalle potenze regionali e globali responsabili della guerra: congelare la battaglia (a partire dall’imprescindibile Aleppo), con i carri armati turchi a 50 km di distanza, ha il sapore di un tentativo di spartizione del paese mosso dall’esterno.

Una divisione etnica e politica, per zone di influenza, che accontenti tutti quelli che vogliono mantenere il controllo sul proprio pezzetto di Siria, staterelli deboli e gestibili. A quel punto per Ankara, Riyadh e Washington (che di recente hanno aperto alla possibilità che Assad rimanga nel primo periodo post-guerra) il presidente potrebbe pure stare dov’è, a governare su Damasco e la costa.

Sul terreno restano le opposte visioni di governo e opposizioni, con Damasco che ovviamente intende garantirsi un paese unito sotto il partito Baath, parte integrante dell’asse sciita, e le milizie armate che sognano un’entità unica non più laica ma islamista, un califfato sunnita che nulla di diverso ha dai progetti dell’Isis.

I messaggi arrivati negli ultimi giorni non fanno presagire l’avvio di un dialogo interno costruttivo. Poche ore dopo la fine della riunione-fiume tra il segretario di Stato Usa Kerry e il ministro degli Esteri russo Lavrov, pesanti attacchi hanno colpito il nord, Idlib e Aleppo. Almeno 93 i morti, secondo fonti locali, in raid del governo.

E ieri, da Daraya dove ha celebrato l’Eid al-Adha, la festa del sacrificio musulmana, il presidente siriano Assad ha allontanato la prospettiva di un negoziato a breve. La scelta stessa della città in cui mostrarsi in preghiera ha un significato immediato: meno di 20 giorni fa autobus pieni di miliziani delle opposizioni hanno lasciato la comunità simbolo delle manifestazioni anti-governative del 2011, dopo l’accordo raggiunto tra il governo e i gruppi islamisti che la controllavano dal 2012.

Da Daraya Assad ha ribadito di voler indietro una Siria senza «terroristi»: «Lo Stato siriano è determinato a riprendere ogni centimetro ai terroristi. Le forze armate continuano il loro lavoro, senza esitazione, a prescindere dalle circostanze interne e esterne».

Due frasi in cui sta tutto: il rigetto della legittimità delle opposizioni moderate e islamiste, che identifica come gruppi terroristi; il prosieguo delle attività belliche; il disinteresse per le pressioni internazionali, comprese in teoira quelle dell’alleato russo, che dietro la facciata dell’unità nasconde interessi personali (che non sarebbero esclusi a priori dall’eventuale spartizione).

È ovvio che da Daraya a parlare è la propaganda: il presidente sa bene di aver risollevato le proprie sorti nell’ultimo anno dopo l’ingresso della Russia nella crisi e sa anche che da solo non resisterebbe alla potenza bellica dei gruppi armati islamisti (le sole opposizioni rimaste), dall’ex al-Nusra fino alle milizie “legittime” dei salafiti di Ahrar al-Sham e Jaysh al-Islam, foraggiati più o meno direttamente dai nemici storici, Turchia e Golfo, e mai sconfessati dall’Occidente.

Da parte loro i gruppi effettivamente presenti nei teatri di conflitto centrali (Idlib e Aleppo) hanno annunciato ieri il rispetto della tregua: Ahrar al-Sham ha deciso di aderire all’ultimo minuto dopo aver inizialmente rifiutato la tregua.

Ma lo fa con una precisazione che fa traballare tutta l’impalcatura, specchio dell’ambiguità che circonda il fronte composito (e poco credibile) delle opposizioni: «Colpire Fatah al-Sham (l’ex al Nusra), trattarla in modo diverso dalle milizie sciite vicine all’Iran e costringerci a dare l’ok ad un pacchetto che prevede di bombardarla, creerà problemi interni. Dichiariamo di non essere d’accordo con i raid su Fatah al-Sham» e di proseguire con le azioni militari congiunte, ha detto una fonte vicina all’Hnc, la federazione delle opposizioni. Identico messaggio dall’Esercito Libero Siriano.