Giovedì della settimana scorsa, 27 aprile, a Roma, in piazza della Consolazione, ai piedi del Campidoglio. È una giornata ventosa che agita le piante delle pendici verdi. Le folate si insinuano tra gli antichi massi poligonali in tufo, spazzano le terrazze. A nessun giardiniere, diresti, è affidata la cura del colle. Le foglie secche cadute l’autunno passato stendono un fitto tappeto. Intanto sono cresciute, alte e insolenti, le erbacce. A tratti, si piegano ora sotto la sferza del vento.

I travertini bianchi della chiesa di Santa Maria, come un sipario tirato tra le lesene corinzie della facciata, ci nascondono le rovine del Foro. Grigie e pesanti nubi minacciano una pioggia imminente. Siamo entrati in un’ampia sala, spoglia, disadorna dove si svolge un convegno di studio sull’attualità dell’opera di Antonio Gramsci a ottanta anni dalla sua scomparsa, il 27 aprile del 1937. Valentino Parlato ascolta attento, seduto in terza fila. Segue, assorto, in un suo speciale modo: come uno stare conciliato nel movimento dei molti pensieri che gli affiorano alla mente, mano a mano che procedono le argomentazioni di uno o di un altro dei relatori. Se intenderà porre una domanda, o sollevare una obiezione, o chiedere all’oratore un supplemento di più compiuta chiarezza, lo farà svolgendo un ragionamento che risulterà coerente con l’ascolto, cioè rispettoso degli argomenti che si appresta a criticare. Gli occhi vivi e intensi e fiduciosi di Valentino quando ti invitano a dialogare, quando ti sollecitano a dire la tua, a formulare un giudizio, a partecipare un dubbio.

Quella sua maniera franca, aperta di chi, mentre afferma un convincimento, te ne fornisce i passaggi interni che lo motivano, le connessioni che, a suo parere, lo giustificano. E che dunque lo fanno degno d’essere proposto e, se non condiviso, da sottoporsi ad una circostanziata, compartecipata discussione. Ho imparato ad amare questo tratto limpido, trasparente, ‘sempre nuovo’ di Valentino nelle stanze della redazione di Rinascita, a metà degli anni Sessanta, io da poco concluso il Liceo, appena iscritto a Filosofia. Allora, tra molte altre incombenze, Valentino studiava Gramsci. Per la cura sua e di Franco De Felice, nel maggio del 1966, gli Editori Riuniti pubblicavano una silloge degli scritti su la ‘quistione meridionale’. Valentino oggi non prende la parola. Il convegno gramsciano si chiude a metà pomeriggio. Piove forte in piazza della Consolazione. Ci salutiamo in fretta. Ci vedremo fra tre giorni, lunedì, ci diciamo, per festeggiare il Primo Maggio. Come l’anno scorso, come due anni fa, in molti, su una grande accogliente terrazza, un vero giardino pensile.

Lunedì Valentino non c’è. L’indomani, inaspettata, la notizia della sua morte.

Ed ecco che si compongono luoghi, vicende e volti di tanti e tanti anni. Le frequentazioni e le relazioni assidue e i lunghi intervalli di lontananza, interrotti da brevi incontri, da propositi non realizzati.

Ed ora si depositano ricordi che non sapevi di avere. Rassetti emozioni e pensieri secondo distribuzioni che non avevi previsto, che ti pare vengano imponendosi quasi per forza propria. Conferiscono un ordine che, fino ad ora libero, si va componendo su se stesso, recingendosi trova ingressi a luoghi che assumono ora una disposizione fissa, una collocazione che non varierà. Forse era un giorno del 1992 (nella dedica non è segnata la data) quando Valentino mi regalò la Lettera a Meneceo di Epicuro: «Ad Alberto, sperando di rubricarci a lungo, e combattendo. W la felicità, Valentino».

Il «rubricarci» alludeva alla prima serie di queste noterelle del Divano, che apparivano allora su il manifesto. In quelle poche nitide pagine di Epicuro che Valentino mi partecipava, si medita sugli dei, sulla felicità, sulla virtù della prudenza, sul futuro e sulla morte («nulla è per noi la morte»). E riguardo al futuro, come avessi accanto Valentino e ci proponessimo di ragionarci sopra serenamente, nel bel giardino pensile del Primo Maggio, leggo: «Si deve ricordare ancora che il futuro non è né del tutto nostro né del tutto non nostro, affinché né ci aspettiamo che assolutamente si avveri, né disperiamo come se assolutamente non si avveri».