Un noto passaggio freudiano accosta la psicoanalisi all’educazione e alla politica considerandoli dei mestieri impossibili, sulla scorta di un’analoga – sottolinea lo psicoanalista francese Roland Gori – incompiutezza: il ricorso al sapere acquisito, infatti, non copre mai integralmente il campo della loro esperienza e della loro pratica.

A maggior ragione risulta impossibile il compito della supervisione clinica, che coniuga almeno due dei tre mestieri menzionati da Freud, insegnamento e psicoanalisi, quando non anche il terzo, nel momento in cui la supervisione si svolge in un istituto di formazione psicoanalitica.

La tensione tra i tre mestieri, accomunati dalla medesima incompiutezza ma naturalmente divergenti nei loro propositi, attraversa tutto il volume della psicoanalista Nancy McWilliams, La supervisione Teoria e pratica psicoanalitiche (traduzione di Gabriele lo Buglio, Raffaello Cortina Editore, pp.282, € 25,00).

La trasmissione del sapere psicoanalitico non può esaurirsi nell’acquisizione di una serie di competenze tecniche, né può essere validabile e misurabile come richiederebbe il «rigoroso empirismo» della psicologia statunitense, di cui l’autrice sottolinea le ricadute paradossali; al contempo però il supervisore non deve, nella sua funzione di docente, occupare indebitamente la posizione dell’analista nei confronti di chi è in formazione, e neppure proporsi come modello, con il rischio di diventare oggetto di idealizzazione o svalutazione acritica.

Non del tutto docente né del tutto analista, meno che mai Maître – il maestro/padrone di cui parla Jacques Lacan – la supervisor è chiamata a mantenere un sottile equilibrio tra le professioni impossibili, di cui McWilliams fornisce la sua personale ricetta, consapevole della ineliminabile componente soggettiva in ogni stile di insegnamento e di clinica. Tra gli ingredienti, notevole e niente affatto scontato lo spazio dedicato all’elemento che l’autrice definisce «ludico», e che tradurrei in termini di investimento libidico e passionale sul sapere, da ottenere attraverso un buon clima relazionale, una moderata self-disclosure, la disponibilità ad accogliere interventi critici o anche, quando occorre, tecniche di role-playing.

Altra componente è l’orientamento pragmatico dell’insegnamento clinico, che caratterizza la psicoanalisi statunitense in misura maggiore di quella europea: esempi di formulazioni possibili in risposta alle domande dell’analizzante, attenzione alle eventuali complicazioni etiche o legali, fino ad affrontare la questione del contratto terapeutico, problematica sotto molti aspetti nel contesto del dispositivo psicoanalitico. Qui l’autrice sembra in bilico tra le esigenze normative del paradigma medico/economico e l’impossibilità strutturale di rispondervi in termini psicoanalitici.

Sebbene compili un elenco di possibili «obiettivi terapeutici» applicabili alla cura psicoanalitica, non omette di ricordare che «la persona davanti a voi non è una media statistica» e che esiste un «elemento artistico del lavoro clinico», ovvero una o più occasioni, in ogni cura, in cui il sapere fallisce e occorre rivolgersi all’invenzione, correndo anche il rischio di sbagliare.