Nel Messico della cosiddetta quarta trasformazione non c’è nulla di veramente nuovo all’orizzonte. Così indica il caso della candidatura, poi cancellata dalle autorità elettorali, dell’ex sindaco di Acapulco Félix Salgado Macedonio alla carica di governatore dello stato di Guerrero per il partito Morena, lo stesso del presidente Andrés Manuel López Obrador.

UN CASO CHE HA SCOSSO profondamente il paese, e per più ragioni. A cominciare dal fatto che sul suo capo pesano due denunce di stupro e almeno altre tre segnalazioni di abusi e molestie sessuali e che malgrado ciò la giustizia non ha ancora fatto il suo corso.

«Intoccabile» lo ha definito l’ex procuratore di Guerrero Xavier Olea, ammettendo, in un’intervista dello scorso marzo a El País, di aver bloccato nel 2018 il suo mandato di arresto, pur avendo contro di lui prove sufficienti, dopo una telefonata in cui l’allora governatore del Pri Héctor Astudillo gli ordinava di archiviare l’indagine.

E di lui ci parla il sociologo dell’Università di Coimbra Ricardo Robles, profondo conoscitore della realtà di Guerrero, evidenziando i forti vincoli che legano «El Toro», come è soprannominato l’ex sindaco di Acapulco, alla regione dello stato nota come Tierra Caliente, «caratterizzata da un alto livello di violenza e da una forte presenza del crimine organizzato». E benché non vi siano prove sui suoi legami con il narcotraffico, non vi è dubbio che nella regione sia la criminalità a imporre le sue regole alla politica.

Il presidente messicano Lopez Obrador (Foto: Ap)

MA, A GIUDIZIO DI ROBLES, il fatto che Salgado Macedonio, malgrado le accuse, abbia potuto candidarsi contando per di più sull’appoggio dello stesso Amlo, come viene chiamato il presidente, non può non essere ricondotto «al sistema patriarcale dominante anche in Messico»: un paese in cui si registrano 11 femminicidi al giorno e innumerevoli casi di violenza sessuale.

«Sembra che neppure questo governo – ci dice Robles – voglia porre fine al patto patriarcale», come il movimento femminista definisce quella complicità maschile che spinge persino a chiudere gli occhi dinanzi alla violenza e che denuncia così bene il gruppo femminista cileno Las Tesis: «el violador eres tú».

COSÌ, MENTRE LE ATTIVISTE messicane, al grido di «Presidente, rompa il patto», gli chiedevano di ritirare il suo sostegno a Salgado Macedonio, Amlo si limitava a ricondurre le accuse nei suoi confronti alla tipica «guerra sporca» delle campagne elettorali e a ricordare il grande consenso di cui l’ex sindaco di Acapulco gode nello stato: è la gente che lo vuole, insomma.

Un sostegno, quello del presidente e del suo partito, che, a giudizio del direttore dell’Istituto di ricerche giuridiche dell’Università nazionale autonoma del Messico (Unam) Pedro Salazar, a cui abbiamo chiesto una valutazione del caso, da un lato si è configurato come un atto di «ostinazione politica» legato alla difficoltà di ammettere di aver trascurato la gravità delle accuse e, dall’altro, si è fatto scudo con «l’argomento di comodo che, in assenza di una sentenza di condanna, chiunque va considerato innocente fino a prova contraria».

QUEL CHE È CERTO, secondo Robles, è che «questa incapacità di prendere sul serio la violenza di genere segna in maniera profonda il governo di López Obrador, ignaro dell’importanza politica di appoggiare una mobilitazione dalla fortissima legittimità come è quella delle donne».

In ogni caso, se alla fine Salgado Macedonio è stato escluso dalle elezioni del prossimo 6 giugno, non è stato a causa delle accuse di stupro, bensì, assai più banalmente, per la mancata presentazione della documentazione obbligatoria relativa alle sue spese elettorali.

Manifestazione contro la violenza di genere a Città del Messico (Foto: Ap)

Un provvedimento che Morena definisce «spropositato» per l’esiguità della cifra (19.000 pesos, pari a 952 dollari), ma che Salazar ritiene giustificato da «una concreta e comprovata violazione della legislazione elettorale», evidenziando come la decisione dell’Istituto nazionale elettorale (Ine) di negare la registrazione della sua candidatura sia stata «adottata da una larghissima maggioranza in un primo momento e ratificata da una maggioranza semplice in un secondo momento».

E infine confermata, il 28 aprile, dal Tribunale elettorale del potere giudiziario, a cui l’ormai ex candidato aveva presentato ricorso, dopo aver minacciato pesantemente il presidente dell’Ine – «Al popolo del Messico non piacerebbe sapere dove vive Lorenzo Córdova? -, con tanto di bara con il suo nome e una corona di fiori accanto alla sua foto e a quella di un altro consigliere.

MINACCE E INTIMIDAZIONI che costituiscono, secondo Salazar, «una delle pagine più preoccupanti e vergognose dell’attuale congiuntura», rivelando «il deterioramento della politica messicana e le forti contraddizioni che caratterizzano la cosiddetta quarta trasformazione guidata da Amlo», con la sua «guerra aperta alle istituzioni di controllo, i cosiddetti organismi costituzionali autonomi, che, in base alla Costituzione, dovrebbero essere indipendenti da tutti i poteri, incluso quello del presidente».

Al di là infatti dell’esito della vicenda, sottolinea il docente della Unam, «il fatto che Salgado Macedonio abbia pronunciato tali minacce, che non sia stato censurato dal presidente e che non sia stato espulso dal partito non è che una dimostrazione del carattere potenzialmente autoritario e anti-democratico del governo di López Obrador».

E PROPRIO IL PRESIDENTE ha reagito alla definitiva estromissione di Salgado Macedonio – e con lui anche di Raúl Morón, candidato di Morena al governo del Michoacán – parlando di un attacco alla democrazia da parte sia dell’Ine che del Tribunale elettorale, l’uno e l’altro ricondotti al «vecchio regime antidemocratico», lo stesso che nel 2006 lo aveva scippato della vittoria assegnandola, al termine di elezioni chiaramente fraudolente, al candidato dell’oligarchia Felipe Calderón e che nel 2012 aveva chiuso gli occhi sui fondi della Odebrecht alla campagna elettorale dell’ex presidente Enrique Peña Nieto.

E «corrotti e venduti» ha definito i due organismi «El Toro», assicurando che si rivolgerà alla Commissione interamericana per i diritti umani, ma intanto riuscendo a piazzare, come sua sostituta, proprio sua figlia, Evelyn Salgado Pinera, non senza provocare scontento all’interno del partito.

«Non siamo una monarchia, non lasciamo la corona in eredità», aveva commentato poco prima dell’annuncio la senatrice Nestora Delgado. Gongola invece suo padre: «Evelyn è meglio di me», assicura.

NEPPURE QUESTA VICENDA, in ogni caso, ha intaccato l’ampio consenso, intorno al 60%, di cui gode Amlo, il quale, secondo Robles, può lanciarsi nella sua offensiva contro gli organismi costituzionali proprio perché «il suo governo gode di una legittimità che mancava da tempo in Messico, grazie ai passi avanti compiuti nella lotta alla povertà e alla disuguaglianza, soprattutto a fronte della completa inazione dei governi precedenti su questo terreno».

Tuttavia, aggiunge, «se la sua diagnosi dei problemi è ottima, non lo sono altrettanto le soluzioni che offre», come sta a indicare, secondo il sociologo, anche «la continuità dei progetti estrattivisti e delle grandi opere, a cominciare dal Tren Maya: un progetto funzionale alle classi privilegiate e al capitale transnazionale».

Un progetto, aggiunge Salazar, che, «oltre al potenziale danno ecologico, culturale e sociale che avrà per i popoli indigeni, ha comportato anche la violazione dei diritti concessi loro dalla Costituzione e riconosciuti dai trattati internazionali in materia di diritti umani, come il diritto alla consultazione libera, previa e informata».

Si comprende bene allora il rifiuto di questo governo da parte di quell’«importantissimo faro politico e intellettuale» che, assicura Robles, continua a essere il movimento zapatista, il quale, già in un comunicato alla fine del 2018, si era scagliato contro «l’imbroglione al potere», accusandolo di ingannare il popolo messicano e di voler distruggere i popoli originari, non senza definire il Tren Maya una «porcheria».