Il Golden Globe a La grande bellezza ha acceso – come prevedibile – gli entusiasmi nazionali. Tutti contenti, o quasi, e pure già certi (o quasi) che il film di Sorrentino ce la farà anche la notte degli Oscar. Si dice e si pensa infatti che il riconoscimento della Hollywood Foreign Press (l’organizzazione ombrello dei Golden Globe composta di parte della stampa straniera di Los Angeles) sia una specie di anticamera alla statuetta (per ora La Grande bellezza è nella shortlist dei 9 titoli, il 16 gennaio verrà annunciata la cinquina). Non sempre è vero ma poco importa.

Di fatto tra i film in corsa avrebbero potuto scegliere meglio. Che so? Il meraviglioso The Wind RisesSi alza il vento di Miyazaki. È vero pure che nelle scelte delle giurie contano molti e diversissimi fattori, valgono equilibrismi che non sempre fanno vincere il migliore, e il risultato dei Globe nel suo complesso sembra calcolato al millimetro per non scontentare nessuno.

Non penso che La grande bellezza sia un grande film. Il movimento barocco sul vuoto dei nostri tempi (?) che Sorrentino dispiega con enfasi di virtuosismo, è calibrato sullo stesso vuoto, e su una sorta di registrazione dell’esistente a fronte della quale non viene messa in atto alcuna ambiguità. Fellini, citato a piene mani come riferimento principe, aveva inventato una Roma e una «dolce vita» con l’immaginario prima della realtà. Sorrentino non inventa nulla: il suo Jep Gambardella è immerso nell’istante che racconta, su esso scivola, pontifica, gode. Persino l’amarezza – se mai ce ne è – del dandismo che ostenta è compiaciuta, come è compiaciuto il catalogo di Roma/Italia che affastella le sue notti.

Però nelle classifiche di oltreoceano stilate a fine anno dai critici il film è piaciuto davvero, fattore questo che ha sicuramente contato nella scelta della stampa straniera. E qui ci si dovrebbe interrogare su tante altre cose, che vanno ben al di là del film di Sorrentino.

Mi stupisco sempre quando a domanda: «Cosa le piace del cinema italiano?» qualsiasi regista americano di qualsiasi generazione (per dirne uno persino Wes Anderson) risponde: Fellini, Antonioni, Bertolucci. E poi: Sorrentino e Garrone.

Certo, sono i film che arrivano, e che sono arrivati più facilmente negli States. Però è abbastanza inquietante sia il salto decennale che, soprattutto, nulla si sappia sul resto.

L’impressione, come ai tempi di Tornatore, che difatti vinse il Golden pure lui con Nuovo cinema Paradiso (88), è che nel mondo, in America particolarmente, rispetto al nostro cinema si cerchino conferme e rassicurazioni, inseguendo una nostalgia (molto vintage) per la grandezza del passato. È rassicurante dunque rintracciare le vestigia del Cinema Italiano, aggrapparsi all’aura felliniana, poco importa se poi Fellini non c’entra nulla, ciò che conta è pensarlo. Così come è rassicurante quell’immagine di Italia, celebrata dal film di Sorrentino, stretta nel paesaggio dei «miti» comuni, fantasmagorie tra le quali non è quasi più possibile distinguere il filo del «vero» e del «falso».

È l’Italia della commedia umana, del berlusconismo, dell’imbroglio. Delle mazzette, dei nobili, dei preti e dei cardinali. Ma anche della «bellezza» di chiese e palazzi, il «piccolo mondo antico» europeo di fronte al quale ogni turista dell’altro mondo si commuove dimenticando le nefandezze. Di questo caos e meraviglia Roma è l’emblema assoluto, così come lo è di quel cinema italiano che fu, delle sue vestigia, della sua magnificenza. E del bisogno, appunto, di ritrovarne oggi almeno un barlume.

Per questo il plauso americano intorno al film di Sorrentino non è esaltante. Un immaginario esiste ed è forte quando dispiega fuori dai propri confini, e dalla chiacchiere del cortile di casa, potenza e seduzione, ribellione e sorpresa. Il contrario fa pensare a quella forma di colonizzazione per cui da certi paesi ci si aspetta sempre e solo una cosa. Per fortuna sappiamo che, Golden Globe e Grande bellezza a parte, non è così.